La comunicazione che Cristo fa del suo sacerdozio

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA

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LIBRO SECONDO. 
    Della comunicazione che nostro signor Gesù Cristo fa al suo sacerdote del suo sacerdozio, del suo stato di Ostia e delle sue disposizioni

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CAPITOLO PRIMO. Come Nostro Signore ha reso la sua Chiesa partecipe del suo sacerdozio. ­ Istituzione del sacramento dell'Ordine

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     San Giovanni scriveva ai fedeli: «Noi vi annunciamo il Verbo di vita, il quale fu da principio; l'abbiamo udito, l'abbiamo visto con gli occhi nostri e toccato con le nostre mani. La vita si è manifestata; l'abbiamo vista, lo attestiamo; e vi annunziamo la vita eterna, la quale era presso il Padre, ed è apparsa a noi. Vi annunciamo ciò che abbiamo visto e udito, affinché voi pure abbiate, società con noi, e la nostra società sia col Padre, e col suo figliuolo, GESÙ CRISTO» (1 Gv 1, 1, 3). San Giovanni ci presenta qui, in poche parole, tutto il complesso del disegno di Dio. Il Verbo divino vive nel seno del Padre, che non cessa di generarlo e di comunicargli tutto l'Essere suo; e questa vita del Verbo è eterna. «Ora il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare tra noi »; e quella vita che Egli riceve eternamente dal Padre suo, «si è rivelata» nella carne; ed Egli ne ha reso partecipe l'Umanità di cui si è rivestito e che ha unita a se medesimo in unità di Persona. Il Verbo, vivente in quella Umanità santa e adorabile, è Nostro Signore GESÙ CRISTO, che gli Apostoli «hanno visto, di cui han sentito le parole, che hanno attentamente considerato, che han toccato con le proprie mani».
     Ma quella vita divina, della quale Nostro Signore GESÙ CRISTO ha vissuto tra noi, Egli l'ha comunicata. Le anime la ricevono dalla sua pienezza; e in virtù di tale comunicazione, «una società» si è stabilita «col Padre e con Nostro Signore GESÙ CRISTO». Le anime che han partecipato alla sua vita e godono di quella divina società, formano il suo Corpo mistico: «Stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo di acquisto» (I Pt II, q.), unito a CRISTO con tale intimità, che Cristo vive in esso come vive nella sua Umanità divina, con questa differenza, essenziale senza dubbio, che nella sua Umanità il Verbo vive in unità di Persona, mentre nella sua Chiesa vive in unità di spirito. Egli vive nella sua Chiesa onde comunicarle tutto ciò che è venuto ad apportare sulla terra. Epperò; questa sua alleanza è veramente il fine prossimo della sua Incarnazione; e appunto per questo motivo san Paolo chiama la Chiesa «la pienezza di Cristo» (Ef 1, 23). «Mi domandate, dice Bossuet, the cosa è la Chiesa? La Chiesa, è GESÙ CRISTO diffuso e comunicato; è GESÙ CRISTO completo, GESÙ CRISTO uomo perfetto, GESÙ CRISTO nella sua pienezza» (218). Eccovi un vasto abisso nel quale scende un gran fiume per colmarlo; si dirà giustamente, che esso è la pienezza di quel fiume. Così Nostro Signore, se si può parlar così, termina la sua corsa nella Chiesa per dilatarsi, diffondersi, e vivere in lei di una vita nuova, nella quale glorifica il Padre suo, come lo glorifica in quella vita teandrica che gli è propria nella sua qualità di Uomo Dio.
     La glorificazione di Dio suo Padre, ecco, infatti, il fine supremo ed ultimo di tutte le opere sue e di tutto il suo essere.
     Ma da questo noi veniamo a conoscere ciò ch'Egli farà nella sua Chiesa. Per amor di essa, poiché l'ama e ha dato se stesso per dimostrare il suo amore, le darà tutto quanto è suo: i suoi diritti, la sua autorità, il suo impero, le sue grazie, i suoi meriti, il frutto della sua vita e della sua morte. Darà se medesimo; e si darà nello stato in cui principalmente ha glorificato suo Padre: nello stato di Ostia.
     Si costituirà Vittima della Chiesa. Perché vuole, in questa Chiesa diletta, rendere al Padre suo l'onore più grande che sia possibile. Egli sarà nella Chiesa, con piena realtà, tutta la Religione della Chiesa. Egli sarà dunque il Sacrificio della Chiesa, poichè tutta la Religione si riassume nel Sacrificio.
     Tale conclusione è rigorosa; ma eccone un'altra: La Chiesa nella quale GESÙ CRISTO si troverà in istato di Ostia, e di cui Egli sarà la Religione e il Sacrificio, è una società esterna e visibile. È dunque necessario che la sua Religione, il suo Culto, il suo Sacrificio siano esterni e visibili. Il Sacrificio, infatti, perché occupa un posto sì importante nella vita della Chiesa, deve avere lo stesso carattere di essa medesima, vale a dire, la visibilità; anzi deve portare un tal carattere in modo splendente. Per questo fine, che cosa avverrà? Forse che Gesù, dopo la sua Ascensione, comparirà sensibilmente, in modo ché gli uomini possano ancora vederlo, come nei giorni della sua vita viatrice? Ovvero, pur rimanendo Egli presente – e non è possibile non lo sia – sarebbero visibili soltanto dei segni esterni, delle apparenze o specie, come, per esempio le apparenze di quella doppia sostanza che veniva già offerta da Melchisedec, il quale nell'antico Testamento fu la figura più perfetta di GESÙ, Sommo Sacerdote?
    A quest'ultimo disegno si è attenuto GESÙ. La prima volta ch'Egli offrì il Sacrificio incruento del suo Corpo e del suo Sangue, nell'ultima Cena, prese del pane e disse: «Questo è il mio Corpo», poi prese il Calice col vino e disse: Questo è il mio Sangue». Dopo queste parole, sulla mensa eucaristica vi era veramente il suo Corpo e non più il pane, il suo Sangue e non più il vino. Era veramente Lui stesso tutto intero, Dio e uomo, realmente presente, ma presente sotto apparenze, sotto le apparenze del pane e del vino.
    Orbene, in tale stato di Ostia Egli vuole stare nella Chiesa; è questo il Sacrificio che le ha lasciato: Sacrificio che le è proprio, e dal quale il Padre riceve la medesima gloria che ricevette dalla Croce, poiché questo Sacrificio è proprio quello della Croce: è la medesima Vittima, il medesimo Sacerdote.

 

    Ma in quella guisa che quel divino Sposo lasciava alla Chiesa il suo Sacrificio, le lasciava pure il suo Sacerdozio. E come le lasciò il suo Sacrificio sotto apparenze visibili, necessarie al Sacrificio quale esiste nella Chiesa, senza cessare di essere Lui stesso l'Ostia del Sacrificio: così le lasciò, o meglio, le comunicò il suo Sacerdozio, parimenti sotto segni esterni o apparenze, senza cessare di essere, Lui stesso, il Sacerdote del Sacrificio.

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    Era pur necessaria anche quest'ultima comunicazione, perché ogni Sacrificio esige e richIede un Sacerdozio, e se il Sacrificio è visibile, tale deve essere anche il Sacerdozio (219). Soltanto, è da aspettarsi che tale Sacerdozio sarà solamente ministeriale, vale a dire, un aiuto, un sussidio, uno strumento, che viene adoperato unicamente perché il Sacrificio è esterno e visibile; e non già un Sacerdozio che operi il Sacrificio in un modo indipendente, diretto e immediato. Questo Sacerdozio avrà qualche cosa della condizione che viene fatta alla sostanza del pane e del vino. Vi saranno soltanto, se si può parlar così, le apparenze di un Sacerdozio; perché, necessariamente, GESÙ CRISTO deve essere la sostanza di tutto il Sacrificio, e quindi la sostanza della vittima che viene offerta e come la sostanza del Sacerdote che l'offre.
    Ma, per verità, la gloria di tale Sacerdozio sarà di non essere che apparenza e non intrinseca realtà; come è gloria del pane e del vino di non essere più nulla fuorché pure apparenze. Perché non sono più nulla, il pane e il vino sono il Corpo e il Sangue di GESÙ CRISTO: così, il Sacerdozio della Chiesa, non essendo nulla in se stesso, in GESÙ CRISTO sarà tutto, e una sola cosa con Lui.

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    Ecco adunque il nostro sommo Sacerdote che comunica alla sua Chiesa il suo Sacerdozio. Ma in quale maniera? Come dà il suo Sacrificio a tutti i membri della Chiesa, forse che darà pure il suo Sacerdozio a ciascuno dei fedeli che la compongono?
    È certo che tutti i fedeli ricevono una vera partecipazione di quel divino Sacerdozio. San Pietro chiama la Chiesa intera «un Sacerdozio regale», Regale Sacerdotium; e dice ai fedeli: «Siete un tempio spirituale, un Sacerdozio santo», Domus spiritualis, Sacerdotium sanctum (Pt 2, 5). Ma come dobbiamo intendere questa dottrina?
    Ciascun fedele, perché riceve qualche parte della pienezza del Sommo Sacerdote, è Sacerdote spirituale ed esercita il proprio Sacerdozio in due maniere. Dapprima, coll'offrire se medesimo, secondo questa raccomandazione di san Paolo: «Vi supplico, per la misericordia di Dio, di fare del vostro corpo un'Ostia viva, santa e gradita a Dio» (Rm 12, 1); col moltiplicare, nella pratica delle virtù, come richiede san Pietro, «i sacrifici spirituali» (220); in una parola col fare ogni casa col fine di piacere a Dio e di unirsi a Lui. Perché, come insegna sant'Agostino, è un vero sacrificio qualunque opera che noi facciamo per unirci a Dio con una unione santa, e che riferiamo a questo Bene sovrano, fonte di ogni felicità (221).

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     Inoltre, ciascun fedele esercita il proprio Sacerdozio spirituale, col prestare il suo concorso all'oblazione del corpo e del sangue di GESÙ CRISTO, sia con l'offerta della materia del Sacrificio eucaristico, sia col concorso attivo alla formazione dei ministri del Sacrificio pubblico nella Chiesa; sia, infine, coll'unirsi all'oblazione del Sacrificio eucaristico in una maniera così intima che egli possa dire, come lo consente la Chiesa, che il Sacrificio offerto è suo e che egli lo offre con le mani di un suo fratello delegato ad offrirlo personalmente in nome di tutti.
     Tale lo spirito sacerdotale da cui può essere animato ogni membro del Corpo mistico di GESÙ CRISTO. Ma la partecipazione che ha ricevuta del Sacerdozio del Figlio di Dio, non gli conferisce nessun altro diritto. Per ascendere all'altare ed offrire il Sacrificio pubblico della Chiesa; per essere, in questo Sacrificio, ministro e strumento necessario del Sacerdozio di GESÙ CRISTO; per aver il potere di render presente la Vittima divina e così operare quella ineffabile meraviglia che è la Transustanziazione, per mezzo della quale soltanto GESÙ può esercitare nella sua Chiesa il suo ufficio di Sacerdote ed essere la Religione di questa sua Chiesa diletta, è necessaria una elezione eterna da parte di Dio; occorre una consacrazione autentica, notoria, con un segno sensibile, il quale opera la grazia e imprime un carattere incancellabile; occorre un Sacramento della nuova Legge.

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     È questa una verità di fede. San Paolo ha detto che ogni pontefice è preso tra gli uomini, affinché offerisca doni e sacrifici per i peccati; e nessuno si appropria da sé tale onore, ma chi è chiamato da Dio come Aronne (Eb 5, 1-4). È dottrina definita dal santo Concilio di Trento (222).
     In tal modo, è manifesto tutto il disegno di GESÙ CRISTO. Il suo Sacerdozio, Egli lo ha esercitato sopra la sua Umanità: in questa si è fatto Ostia e si è offerto in Sacrificio. Il suo Sacerdozio e il suo Sacrificio essendo eterni, Egli ha lasciato alla sua Chiesa il suo Sacrificio, che si continua nella Santa Messa. Alla Chiesa ancora ha comunicato il suo Sacerdozio, ma questo Sacerdozio viene comunicato, non già a ciascun membro della Chiesa, bensì, per la virtù del Sacramento dell'Ordine, a quelli che sono chiamati da Dio. Chi riceve questo Sacramento può giustamente essere considerato come un altro GESÙ CRISTO; la sua unione col Sommo Sacerdote è la più intima che sia possibile, perché tra GESÙ CRISTO e questo uomo privilegiato non vi è soltanto unione di ministero, ma ancora unione di stato e di disposizioni. Un tal favore straordinario che non ha uguale al mondo, obbliga coloro che ne sono l'oggetto, ad una grande santità; nessuna virtù, ch'essi non debbano praticare e in un grado eminente. Essi sono veramente gli uomini di Dio, i cooperatori di Dio; nella Chiesa rappresentano legittimamente CRISTO, quindi debbono portarne dappertutto il buon odore, offrire lo spettacolo di ministri fedeli nei quali Dio trionfi, e GESÙ CRISTO trovi la sua vera gloria (223).

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NOTE

(218) Lettres de piété et de direction. – A une demoiselle de Metz, IV.

(219) Conc. Trid., Sess. XXII, cap. I; Sess. XXIII, cap. I

(220) I PETR., n, 5. – Omnes filii Ecclesiae Sacerdotes sunt; ungimur enim in Sacerdotium sanctum, offerentes nosmetipsos Deo hostias spirituales. S. AMBR., In Lucam, Eb. V.

(221) De Civit. Dei, lib. X, cap. IV.

(222) Sess. XXI, cap. I; Sess. XXIII, can. 1, 3, 4

(223) I Tim., 6, 11; II Tim 3, 17; I Cor 3, 9; II Cor., 2, 14-15; V, 20; VII, 23