Sulla pratica esterna della virtù di religione

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

 

SACERDOTE E OSTIA

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LIBRO TERZO

LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO

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CAPITOLO SECONDO. SULLA PRATICA ESTERNA DELLA VIRTÙ DI RELIGIONE

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Ogni uomo ha il dovere essenziale di onorar Dio con atti esterni, ma il Sacerdote più di tutti e per motivi specialissimi. Egli è Sacerdote neI suo corpo come nella sua anima, ed è parimenti Ostia, nel suo corpo come nella sua anima, perché è Sacerdote e Ostia in tutta la sua persona. A lui soprattutto sono dirette queste parole di san Paolo: «Ve ne supplico, per la misericordia di Dio; fate del vostro corpo un'Ostia viva, santa e a Dio gradita» (Rm 12, 1) e ancora: «Glorificate e portate Dio nel vostro corpo» (1 Cor 6, 20). Se la Religione interiore del Sacerdote deve essere così perfetta, come non lo sarebbe pure la sua Religione esterna? Si spiritu vivimus, spiritu et ambulemus (Gal 5, 25). Ma il santo Concilio di Trento, perché il Sacerdote ricordi la sua condizione nella Chiesa, ha detto, per lui, queste parole che bisogna meditare con frequenza:

 

    Nihil est quod alios magis ad pietatem et Dei cultum assidue instruat, quam eorum vita etexemplum, qui se, divino ministerio dedicarunt… In eos tanquam in speculum reliqui oculos conjiciunt, ex iisque sumunt quod imitentur. Quapropter sic decet omnino Clericos… vita moresque suos omnes componere… ut nihil, nisi grave, moderatum, ac religione plenum prae se ferant; levia etiam delicta, quae in ipsis maxima essent, effugiant, ut eorum actiones cunctis afferant venerationem (394).

 

     Parole gravi e solenni! «Non v'ha nulla che, con maggior efficacia del nostro esempio, istruisca gli altri nella pietà e nel culto dovuto a Dio!». Quale disgrazia sarebbe la nostra se, con la nostra negligenza, diventassimo per il popolo una pietra d'inciampo! Quale benedizione preziosa invece ci assicuriamo per il giorno del giudizio, se, con una vita sempre degna del nostro carattere, siamo uno specchio purissimo di perfetta Religione, «nel quale i fedeli trovano quanto debbono imitare per rendere a Dio il dovuto onore!».

 

     Dobbiamo stare attenti a praticare con pietà la grande virtù di Religione, specialmente – in Chiesa, – nell'amministrazione dei Sacramenti; – nelle sacre funzioni, – nella recita del Breviario; ed essa deve manifestarsi, – dapprima nella nostra persona, – poi nelle persone che, sotto la nostra dipendenza, si prestano al culto di Dio, – infine, nelle cose medesime che servono al culto.

 

     Dapprima, in tutta la nostra persona, – cioè nel nostro esteriore in genere, – e, in ispecie, nei nostri sguardi, ­ nei nostri movimenti, – nel tono di voce, ecc.

 

     Tutto il nostro esteriore sia veramente l'espressione della Religione interna dell'anima; tutto sia umilmente grave, raccolto, moderato, principalmente in Chiesa. San Paolo dice ai fedeli: «La vostra modestia sia nota a tutti, perché il Signore è vicino» (Fil 4, 5). Orbene, in qual luogo è vicino il Signore, come in Chiesa? E a chi è vicino, come al Sacerdote? Non è forse lui che deve dire in tutta verità: Vivit Dominus, in cujus conspectu sto? (3 Re 8, 1). V'ha di più ancora: egli tiene Dio tra le mani, ne dispensa e distribuisce le grazie e i misteri (1 Cor 4, 1; 1 Pt 4, 10). Che più! Distribuisce Dio medesimo e lo dà ai fedeli (Tt 1, 7). Il Sacerdote è sempre tutto per Dio e tutto in Dio (395). Epperò, il sentimento della presenza di Dio, della sua Maestà e della sua gloria, deve trasparire, in Chiesa, dal nostro volto, dai nostri movimenti, da tutti i nostri atti. L'affettazione sarebbe evidentemente un difetto; una esagerata lentezza, una certa esagerazione di gravità di dignità, il posare con rigidezza nell'andatura e nel contegno, tutto ciò sarebbe piuttosto nocivo all'edificazione dei fedeli; ma una disinvoltura noncurante, una libertà di tratto senza riguardi, non sarebbe solamente sconvenienza, ma altresì offesa a Dio.

 

     La Santa Messa è l'azione per eccellenza. Ci limiteremo qui a ricordare quell'aria di santità, così possiamo dire, che ci conviene in questi momenti. Dobbiamo celebrare il grande Mistero, non già soltanto con la divozione degli Angeli, ma alla maniera di GESÙ CRISTO medesimo… San Vincenzo de' Paoli «all'altare compariva come un altro GESÙ CRISTO, Vittima e Sacrificatore: come Vittima, si umiliava in un profondo abbassamento, e nel recitare le preghiere e parole liturgiche che esprimono l'umiltà e la contrizione, soprattutto il Nobis quoque peccatoribus, sembrava un delinquente condannato a morte. Come Sacrificatore, era grave e maestoso ad imitazione del Salvatore, e in pari tempo, pieno di dolcezza e di serenità. Quando si rivolgeva al popolo con l'espressione di tali sentimenti sul suo volto e nel suo contegno, tutti ne rimanevano edificati: «Dio! – diceva, – come dice bene la S. Messa quel Sacerdote! Deve essere un santo» (396).

 

     Nell'amministrazione dei Sacramenti e in tutte le funzioni sacre, dobbiamo pure abituarci ad una grave dignità; e questa è serietà, modestia, semplicità, e raccoglimento. Quante volte si veggono manomessi e offesi gli interessi di Dio e della carità dovuta al prossimo, perché il Sacerdote trascura l'attende tibi che san Paolo diceva al suo discepolo e quest'altro monito del grande Apostolo: «Che dobbiamo in ogni circostanza comparire veri Ministri di Dio» (397).

 

     Dall'abitudine nasce una certa facilità, ma talvolta anche una deplorevole precipitazione che potrà indurre i fedeli pensare che, per noi, ciò che preme soprattutto, è di sbrigarci presto. Vi saranno a nostro sgravio delle circostanze attenuanti; ma i fedeli non ci scuseranno tanto facilmente e perderanno la stima delle nostre persone e del nostro ministero. Eppure pro Christo legatione fungimur, e siamo gli aiutanti di Dio! (398).

 

     Il Breviario. – L'onore di Dio, e talvolta anche l'edificazione dei fedeli, esigono che recitiamo con una attenzione tutta religiosa il Santo Ufficio. È questo il nostro Ufficio, ciò che vuol dire, il nostro impiego, la nostra carica, la nostra obbligazione propria. È l'Opus Dei, di cui parlano i Padri (399)

 

    Gli sguardi. – Gli occhi occupano necessariamente un posto importantissimo nel nostro contegno. Nelle sacre funzioni, il Sacerdote non può esimersi dal vedere ciò che avviene attorno a lui, ma qual modo diverso di vedere secondo che il Sacerdote è un uomo di Dio, oppure un Prete tutto esteriore, zelante, se si vuole, ed anche animato dal desiderio che tutto si faccia bene, ma privo «del senso di GESÙ CRISTO!».

 

     Gli sguardi di un santo Prete sono di un uomo che possiede se stesso, perché non dimentica lo sguardo di Dio sotto il quale si trova sempre, e neppure il compiacimento e la gloria che Dio aspetta dalla sua condotta; quindi non lasciano trasparire impazienza, né vivacità male repressa, tanto meno dispetto o curiosità inutile. San Gerolamo ha detto di san Giovanni Battista: Oculis Christum spectaturis nihil aliud dignatus est aspicere (Epist. CXXV).

 

     I nostri movimenti, i nostri gesti. – In questo punto, l'esempio dei santi è la nostra miglior regola. Citiamo ancora san Vincenzo de' Paoli: «Egli esigeva il massimo rispetto in chiesa e nelle sacre cerimonie. Le minime negligenze in Chiesa erano un supplizio per il suo spirito di Religione, e ispiravano un vero terrore alla sua anima sempre tremante per la paura di qualche scandalo. Se accadeva che qualcuno fosse passato davanti all'altare con leggerezza o con una genuflessione distratta, lo chiamava subito e gli indicava in qual modo e sino a qual punto bisognava abbassarsi davanti a Dio… Egli medesimo, quando per causa dei suoi acciacchi non poteva più piegare il ginocchio sino a terra, se ne affliggeva come di un durissimo castigo per i suoi peccati, e ne domandava perdono in pubblico, pregando i suoi che non se ne scandalizzassero. «Nondimeno, soggiungeva, se vedessi che la compagnia ne prendesse motivo di rilassamento, io mi sforzerei di mettere il ginocchio in terra, qualunque male me ne avvenisse» (400).

 

     Osserviamo bene le genuflessioni, e anche i segni di croce sulla nostra persona come sulle cose sante o per le benedizioni. Se non si sta attenti, diventano gesti bizzarri e sconvenienti che offendono l'onore che si deve a Dio. Simili segni… all'altare!… sopra il Corpo e il Sangue deI nostro Dio!…

 

    Nulla di ciò che si fa al cospetto di Dio e secondo le prescrizioni della Chiesa, può considerarsi come piccolo e di poca importanza. Le rubriche fissano i movimenti e la posizione delle mani; così pure gli inchini profondi, medi o semplici, del capo o del corpo.

 

       Santa Teresa protestava che volentieri avrebbe dato la vita per attestare il suo rispetto per la minima delle rubriche. Alle sacre funzioni soprattutto, ed alle cerimonie, dobbiamo applicare quella parola deI divin Maestro: Sic luceat lux vestra coram hominibus, etc. (Mt 5, 16).

 

    Il tono di voce, la pronuncia. – Lo Spirito Santo ha lodato la voce della Sposa (Ct 2, 14). La Sposa, è la Chiesa, il Sacerdote ne è l'organo. Lo Spirito Santo invita la Sposa a far udire la sua voce e Lui stesso ne regola le modulazioni; tutto quanto fa parte del culto di Dio è così santo!

 

    La nostra voce, sia sempre diretta dallo Spirito di lode e di amore. Stiamo attenti, con gran cura, ad evitare tutto quanto non sarebbe dignitoso, o meglio, non sarebbe religioso; è questa la parola che esprime tutto. Evitiamo in proposito ogni singolarità, specie nella santa Messa. Certi Sacerdoti, anche buoni, celebrano talvolta sotto questo aspetto, quasi senza dignità. Noi crediamo che nella santa Messa e in tutte le sue funzioni, il recto tono grave, moderato, uniforme sia il migliore; esso non esclude la pietà, tutt'altro, mentre denota maggior gravità e rispetto più religioso.

 

     Quando poi dobbiamo cantare, non siamo padroni di rendere sempre la nostra voce bella e piacevole; ma possiamo almeno evitare di emettere suoni meno che modesti e rispettosi verso il Signore. Prendiamoci cura che la nostra voce, al cospetto di Dio, non sia una distrazione per nessuno. San Bernardo vuole che «il canto abbia qualche cosa di virile e di pio, come l'espressione medesima della voce dello Spirito Santo» (401).

 

     Dobbiamo poi, bene spesso, parlare nell'assemblea dei fedeli. Stiamo bene in guardia: non si può parlare in Chiesa come si farebbe nella sede di qualche Pia Unione. Qui ancora lo spirito di Religione ha i suoi diritti; esso esige sempre gravità, moderazione, modestia e semplicità; ed esclude quanto sarebbe ozioso, volgare, più ancora ciò che sarebbe triviale, esagerato o eccessivo. Se fossimo alla presenza del Vescovo o del Sommo Pontefice!… Orbene, c'è più ancora e meglio: siamo al cospetto di Dio; e davanti a GESÙ CRISTO, vivente nel santo Tabernacolo, e parliamo ad anime da Lui redente.

 

     La pronuncia, per il Sacerdote veramente religioso è l'oggetto di una attenzione particolare per evitare di sincopare parole e frasi, come può avvenire in forza dell'abitudine.

 

     San Paolo ha detto: «Per ipsum (Christum) offeramus hostiam laudis semper Deo, id est fructum labiorum confitentium nomini ejus» (Eb 13, 15). Il culto delle labbra che si muovono sotto l'azione dello spirito interiore, è dunque santo. Tuttavia, il Signore, dei Sacerdoti della antica Legge, non lo accettava, perché, in essi, non era animato da tale. spirito di religione (Is 29, 13; Mt 15, 8). Eppure era ben qualche cosa quell’esteriore, dove al popolo si mostrava almeno qualche apparenza di ciò che è dovuto a Dio!… Ma se, oltre al difetto di spirito interiore, mancasse pure il «frutto e l'omaggio esterno delle labbra», che cosa avanzerebbe?…


 

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     Il nostro spirito di religione deve manifestarsi nelle persone che, sotto la nostra dipendenza, apportano il loro concorso al culto di Dio, come sagrestani, chierichetti ecc. La santità del Sacerdote, di sua natura, è comunicativa (402), perciò è suo compito diffondere intorno alla propria persona lo spirito di Religione; l'esperienza conferma che nelle anime non vi è, al riguardo, se non quanto vi infonde egli medesimo. È cosa particolarmente evidente riguardo alla Religione esterna. Quei chierichetti sono naturalmente leggeri e disattenti; – quei sagrestani non operano che per mestiere; ­ quei giovani non hanno contegno… Chi innalzerà tali anime imperfette, così distratte nel servizio di Dio, talvolta sino all'irriverenza? Chi rimetterà sotto i loro occhi la Maestà di Dio, nel Tempio santo, e gli sguardi vivi e adorabili dell'Ospite infinitamente amabile che sta nel suo Tabernacolo? Il Sacerdote, solo il Sacerdote, col suo esterno grave, silenzioso e modesto; con gli avvisi moderati ma opportuni e costanti; con tutto quel contegno del quale si può dire che «una virtù – una virtù di pietà, di divozione e di amor di Dio – esce da lui e risana ogni infermità». Ma per esercitare una tale influenza che l'Evangelista attribuisce al Verbo fatto uomo, bisogna che il Sacerdote interiormente ne abbia lo spirito.

 

     Come GESÙ, il Sacerdote può e deve rivolgere al Padre, quale espressione della propria Religione interiore, queste parole: Zelus domus tuae comedit me (Ps 58, 10; Gv 2, 17). Perciò, nulla gli sfugga di ciò che onora Dio, e non tolleri niente che potrebbe essere mancanza di rispetto verso la sua divina Maestà. Et non sinebat ut quisquam transferret vos per templum: …dicens eis: Nonne scriptum est, quia domus mea, domus orationis vocabitur omnibus gentibus? (Mc 11, 16-17).

 

     Lo spirito di Religione del Sacerdote si manifesta anche negli oggetti del culto. Il Sacerdote pio e santo ha l'occhio su tutto. Con una sollecitudine piena di amore si prende cura di tutti questi oggetti venerabili e guarda persino alle minuzie, come se tutto il suo interesse fosse impegnato nèlla perfetta conservazione in buono stato di tutte quelle cose sacre. E, per verità, fatta eccezione delle anime, che cosa intorno a lui potrebbe meritare di occupare il suo spirito e il suo cuore ? Forse la sua abitazione, la sua mobilia, anche la sua biblioteca? Forse gli interessi materiali? Oppure gli oggetti d'arte? O Dio! Se la maggior parte di questi beni terreni si mettono a confronto con una goccia d'acqua santa, non sarà forse da dirsi quella parola del Savio: Vanitas vanitatum? Nulla nell'ordine naturale può mettersi a paragone con ciò che la fede circonda dei suoi splendori. Beato quel Sacerdote che libero dal fascino della vanità (Sap 4, 12), riserva tutto il suo amore per ciò che è celeste e divino!

 

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(394) Sess. XXII, cap. I, De reform.

(395) Verus Minister Altaris, Deo non sibi natus est. – S. AMBR., In Ps., CXVIII, Sermo VIII

(396) (1) MEYNARD chap. VII.

(397) 1 Tim., IV, 16; II Cor., VI, 3, 4; Coloss., I, 28.

(398) II Cor V, 20; 1 Cor III, 9.

(399) S. BERNARD., In Cantica, sermo XLVII

(400) MEYNARD., chap. VII

(401) Virili, ut dignum est, et affectu voces Spiritus Sancti depromentes. – In Cantic., Serm. XLVII.

(402) Cfr.: S. TH., Supplem. q. XXXIV, a. 1.