La speranza e la fiducia in Dio

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA

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LIBRO TERZO

LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO

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CAPITOLO QUINTO. LA SPERANZA E LA FIDUCIA IN DIO

 

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     La Visione beatifica, ossia il compimento finale di quella comunicazione di se medesimo che Dio ci fa, fin da questa vita, con la grazia santificante, ecco l'oggetto della virtù della Speranza.
     Non si può raggiungere un fine senza i mezzi adatti; perciò è pure oggetto di questa virtù l'aiuto soprannaturale da parte di Dio, ossia la grazia. Ma il termine nel quale si fissa e riposa la nostra speranza, è quella Visione eterna, beatifica e deifica.
     Orbene, la nostra Speranza è fondata sulla parola stessa di Dio, il quale ci ha rivelato la sua decisa volontà di destinarci a quella suprema Beatitudine. La nostra vocazione al Paradiso è dunque, dal lato di Dio, essenzialmente sicura. Questa vocazione ci costituisce esseri soprannaturali, e Dio ce ne dà il pegno, con la grazia santificante e le grazie attuali. Siccome poi la volontà che Dio ha di ammetterei un giorno alla visione e al possesso di se stesso è assolutamente ferma, stabile e permanente, anche la volontà di darcene il pegno è pure assolutamente ferma, stabile e permanente.
     Tale è il fondamento della Speranza. Per rendere in noi, soprattutto in noi Sacerdoti, sempre più robusta questa grande Fede e questa magnifica Speranza, dobbiamo qui richiamare una verità che forse non meditiamo abbastanza.
     Dio Padre ci ha fatto una promessa infallibile, e ce ne ha dato un pegno. Orbene, qual è questo pegno? Niente altro che GESÙ CRISTO Nostro Signore, principio ed esemplare dell'ordine soprannaturale, autore della grazia, consumatore della nostra Fede e della nostra Speranza. GESÙ CRISTO è il pegno delle promesse del Padre; e questo pegno è veramente nostro, perché è stato dato a noi. Quel GESÙ, il quale vede e possiede il Padre; quel GESÙ che in qualità di Figlio, eternamente, essenzialmente, per proprio diritto, gode del Padre; quel GESÙ che è uno col Padre; proprio quel medesimo GESÙ è il pegno e il dono del Padre, dono perfetto, dono irrevocabile tanto nel proposito di Colui che ce lo fa, come nel proposito e nella volontà di Colui che è il dono medesimo; poiché Egli è una persona divina che dona se stessa con la medesima pienezza con cui ci viene data. Quanti testi della Scrittura ci assicurano di questa verità! (445).

     Orbene, se GESÙ CRISTO ci è dato, noi dobbiamo dire e ripetere che è nostro; ci appartiene. Dovendo, secondo la nostra vocazione, posseder Dio, nell'eternità, come un bene nostro; noi, già nel tempo, possediamo Dio in pegno pi quel possesso stesso. Ecco, in un modo sublime ma assolutamente certo, la grazia che ci vien fatta, il diritto che ci viene dato. GESÙ Incarnato è nostro; GESÙ povero in una mangiatoia; GESÙ che lavora a Nazaret; GESÙ che prega e si umilia; GESÙ che soffre e muore; GESÙ morto e sepolto; GESÙ risorto e che sale al Cielo; GESÙ è sempre nostro come un pegno è proprietà di colui che lo riceve; è nostro per intero, perché ci viene dato tutt'intero. Epperò, tutto quanto fa, tutto è nostro; tutti i suoi misteri furono operati per noi. Quel grande Sacrificio che costituisce la sua vita, dal primo istante nel seno di sua madre sino al Cielo, è nostro ed è per noi. Ecco il pegno; chi potrebbe dire che non è sufficiente? Ma qui vi è un commovente segreto che dobbiamo svelare con gioia e con amore.
    Eccovi un padre che ama i suoi figli e li tiene continuamente presenti al suo pensiero; per essi lavora, e verrà giorno in cui darà loro quei beni che avrà guadagnato; in tal modo farà loro l'applicazione dei suoi sudori e delle sue cure.
     Dobbiamo noi pensare e parlare in questo modo di GESÙ nostro Redentore e nostra Vittima? Mai più! Ma in modo diverso. Certo) GESÙ, nella sua vita e nella sua morte, ha accumulato meriti per tutti noi; ma eravamo noi presenti soltanto alla sua mente e al suo cuore? Ha egli forse aspettato per farei l'applicazione dei suoi meriti a nostro favore, che arrivassimo all'esistenza? No ancora, egli ha operato in un modo diverso; ed ecco il mistero. Pur da quel medesimo istante in cui i meriti di GESÙ furono acquisiti a nostro vantaggio, ne veniva fatta una misteriosa e ineffabile, ma reale applicazione alle nostre povere anime. Non eravamo solamente presenti alla mente e al cuore del nostro Dio, noi eravamo in Lui. Come eravamo in Adamo, per la nostra rovina: eravamo pure in GESÙ CRISTO, per la nostra salvezza. Come eravamo in Adamo, nel momento della sua prevaricazione; eravamo pure in GESÙ CRISTO durante tutto il corso della sua vita e nell'ultimo compimento del Sacrificio col quale ci ha salvati; nella sua morte, e nei misteri gloriosi che hanno seguito, nella Risurrezione e nell'Ascensione al cielo. Niente di più commovente, di più dolce al cuore, e in pari tempo; niente di più sicuro che questa dottrina. È l'insegnamento unanime dei Padri; e san Paolo lo ha detto per il primo: Mortui sumus cum Christo… consepulti sumus cum illo Convivificavit nos in Christo, e conresuscitavit, et consedere fecit in caelestibus in Christo Jesu (446). I Padri sono più espliciti ancora; san Leone parlando della Natività dice: Sicut cum Christo in Passione crucifixi, in Resurrrectione resuscitati, in Ascensione ad dexteram Patris collocati, ita cum ipso sumus in Nativitate congeniti (447).
     San Fulgenzio a sua volta: Dominus, sicut in suo corpore fidelium corpus, sic in sua anima universorum fidelium animas, per naturae unitatem et gratiam justificationis, accepit (448).
    Sant'Ambrogio, parlando della Risurrezione dice: Resurrexit in eo (in Christo) mundus, resurrexit in eo coelum, resurrexit in eo terra (449). E altrove, parlando della Ascensione: Non unus homo, sed lotus in omnium Redemptore mundus intrabat (450).
    Tertulliano esprime, a suo modo, il medesimo pensiero: Securi estote, caro et sanguis, usurpastis et coelum et regnum Dei in Christo (451).
    E Sant'Agostino: Ecce quale pignus habemus, unde et nos, fide, spe et charitate, cum Capite nostro sumus in coelo in aeternum (452).
    Termineremo con le seguenti parole di san Massimo di Torino: In Salvatore omnes resurreximus, omnes ad caelestia transmigravimus. Est enim, in illo Christi Homine, uniuscujusque nostrum carnis et sanguinis portio. Ubi ergo portio mea regnat, regnare me credo… Nihil ergo de venia disperemus, nihil de odio timeamus. Habemus praerogativam sanguinis nostri! in Christo enim caro nostra nos diligit (453),
     Noi dunque, nella Persona del nostro Capo, del nostro Fratello maggiore, Primogenitus in multis fratribus, siamo già in cielo. Quella parola di san Paolo: Nostra conversatio in coelis est (454), non è una semplice raccomandazione; essa esprime un fatto. Il fatto non è ancora perfettamente compiuto, ma in realtà e già in via di compimento. Colui che è più che una parte di noi medesimi, ma è il nostro Tutto e che si chiama «la nostra vita» (Gv 11, 25; 14, 6), del quale san Paolo ha detto che «vivere è CRISTO» (Fil 1, 21), Egli stesso è in cielo; e quando vi ha fatto il suo ingresso nella sua gloriosa Ascensione, ha voluto, con una formale intenzione, nella sua persona, introdurre e stabilire anche noi nel suo regno. O Dio! qual delizioso motivo di speranza!
     Davvero, bisogna ripetere quelle parole del Santo Vescovo di Torino: Nihil de venia desperemus, nihil de odio timeamus! Quando pure ci sentissimo coperti di peccati, quando pure credessimo di essere «meritevoli di odio» (Eccli 9, 1; 12, 3, 7), conserviamo la nostra Speranza irremovibile ed elevata, piena di pace e di luce, anzi di gioia, poiché qualche Cosa di noi già occupa il suo posto in cielo.
     Il Sacerdote, meglio di tutti, deve conoscere una dottrina così bella. Ne approfitti per aver sempre nel cuore una perfetta Speranza. A questo fine, ne ripeta frequentemente gli atti con forza e soavità. Ne ha tanto bisogno!
     Ci viene alla mente qui quella grave parola di san Giovanni Crisostomo, spesso citata dagli autori che trattano dei doveri del Prete. Non temere dico, dice il santo Vescovo, sed ut affectus sum ac sentio; non arbitror inter Sacerdotes multos esse qui salvi fiant, sed multo plures qui pereant (455). Voleva egli parlare soltanto del clero della Chiesa greca, del quale meglio di tutti conosceva lo stato, in quell'epoca di decadenza morale che era la fine del secolo IV? O dovremo dire che il suo giudizio era più generale, e si riferiva a tutti i secoli della Chiesa?… È certo però, che il grande Vescovo di Costantinopoli ha parlato con sicurezza; e non soltanto in quella occasione. In altra delle sue Omelie, troviamo simili espressioni: Miror si quem ex rectoribus salvum fieri contingat (456).
    Orbene, che dobbiamo concludere di tali parole, se non che il Sacerdote, più d'ogni altro, deve portar ben alto la sua Speranza, e conservarla con la massima perfezione? Perché, più è minaccioso il pericolo e più è necessario cercare un appoggio in Colui che solo può salvarci, e gettarci nelle sue braccia. Il bambino sente il bisogno dell'aiuto e della protezione della madre; quando sorge qualche pericolo, allora corre là dove sa di trovare un rifugio sicuro. Così il Sacerdote, quando considera, da una parte, la grazia eminente della propria vocazione con la grandezza della sua immensa responsabilità, e da altra parte riflette alla sua debolezza ed alla sua incostanza naturale, cosa può e deve fare, se non gettarsi con umiltà, supplicazione e confidenza, nelle braccia di Dio e nel Cuore di GESÙ CRISTO? Egli aspetterà fiducioso la sua salvezza da quell'amore eterno che ha pur fatto promesse così grandi e ne ha dato pegni così sicuri: promesse e pegni dei quali, nella propria vocazione e nelle abbondanti grazie ricevute, vede prove, per lui personalmente, oltremodo sublimi e commoventi.
     Il Sacerdote, adunque, ha bisogno per la sua pace e per la sua santificazione, di una grande e ferma speranza. Egli deve averla costante e forte, anche per altri titoli. Non è egli forse, davanti alla Maestà di Dio, mediatore a pro dei popoli? Non è, per ufficio e per dovere, intercessore e supplicante? Non abbiamo noi riconosciuto che è Vittima, Vittima di soddisfazione e di espiazione? Oh come tutto questo suppone una intima e grande fiducia nella preghiera! Come è necessario che il Sacerdote sia persuaso che si rivolge, non già alla infinita Giustizia, ma all'infinita Bontà e alla Misericordia e che si appressa «al trono della grazia» (Eb 4, 16) e non al tribunale dove siede la Santità indefettibile! Altrimenti ogni ascesso gli rimarrebbe chiuso; sarebbe impossibile per lui ottener credito presso il Cuore del Padre. La Speranza grande e forte, soave e umile, è quella che lo deve guidare, questa gli darà credito, gli otterrà un esito favorevole in tutti i ministeri di intercessione, di espiazione e di soddisfazione.
    La Speranza è necessaria ancora al Sacerdote, perché, in qualità di Padre, Dottore e Medico delle anime, ha il dovere di far conoscere questa virtù divina e di farne parte al mondo, con l'insegnamento e con l'esempio. Noi viviamo in tempi molto critici, in cui le anime non sembrano più avere inclinazione, ambizione e amore che per le cose della terra. Quale pazza avidità, quale passione per i beni che passano e i godimenti che corrompono il cuore! Chi potrà dir loro, con qualche efficacia, quella parola di speranza e di salvezza: Sursum corda? Chi, se non il Sacerdote il quale non porge questo invito ai suoi fratelli se non perché il suo proprio Cuore è tutto «dato al Signore»? «Il Dio della Sapienza, giusta una parola di san Paolo, ne ha riempito il cuore ed esso abbonda e sovrabbonda in questa divina virtù, per la grazia dello Spirito Santo» (Rm 15, 13).
     Il Prete è stabilito e confermato in una speciale grazia di Speranza; dedicato alla divina Eucaristia non fa più che una cosa sola col Sacrificio e con l'Ostia… E allora?… Che diremo noi? Forse che nel Sacerdote così unito a GESÙ, scompare la virtù della Speranza? No! per certo; essa «rimane» (1 Cor 13, 13). Non si tratta di una ,unione che lasci il posto unicamente all'esercizio della carità deifica; ma tale unione, come rende forte e sicura quella virtù la quale nella Consacrazione e nella Comunione trova appunto ciò che spera!
    Il Sacerdote può quindi, con intima gioia, appropriarsi tante belle parole della Scrittura, nelle quali i Profeti esprimono la loro fiducia nel Signore. Per dovere nella recita del Breviario, egli dice quelle parole nel nome della Sposa diletta di CRISTO, la santa Chiesa; ma ha diritto di applicarle pure a se medesimo. Chi mai, meglio di lui, potrebbe dire: Spes, mea ab uberibus matris meae. Pars mea Dominus; propterea exspectabo eum. In, te Domine speravi; non confundar in aeternum (457) e molte altre?… E perché non ardirebbe pure dire con l'umile Vittima: Et ego sciebam quia semper me audis? (Gv 11, 42).     
      Ci sembra che il Signore risponda: Hic est Filius meus dtlectus (Mt 13, 17). Et clarificavi et iterum clarificabo (Gv 12, 28). Ecce in manibus meis descripsi te (Is 49, 16). Ego ero ei, ait Dominus, murus ignis in circuitu (Zc 2, 5-8). Cum ipso sum in tributatione, eripiam eum et glorificabo eum (Ps 90, 15).
     Tutto quanto v'ha, nella Sacra Scrittura, di più dolce, di più affettuoso, di più incoraggiante, può applicarsi al Sacerdote. Egli è il «Figlio di Dio, il suo eletto, il suo prediletto, oggetto di tutte le sue affezioni e compiacenze» (Is 42,1; Mt 12, 18). Tali parole, è vero, furono dette di GESÙ CRISTO; ma non è forse anche vero che GESÙ e il suo Sacerdote sono una cosa sola nella più ammira bile unità? Quanti motivi di fiducia! Al Sacerdote più che ad ogni altro viene rivolta quella bella invitazione di san Paolo: Fortissimum solatium habeamus, qui contugimus ad tenendam propositam spem; quam sicut anchoram habemus animae tutam ac firmam et incedentem usque ad interiora velaminis: ubi praecursor pro nobis introivit Jesus (Eb 6, 18-20).
     Quali parole queste, del grande Apostolo! Quale dolce e sublime visione! Il Sacerdozio di GESÙ ci introduce nel Cielo: e la Speranza ci fa salire sino a tale altezza. O destino incomparabile! O incantevole vocazione! O termine glorioso che è l'oggetto di tutti i nostri sospiri! In GESÙ CRISTO e per mezzo di GESÙ CRISTO, che è il nostro pegno, il Dono del Padre, il suo proprio dono a noi, avremo quaggiù tutte le grazie necessarie, poiché Egli medesimo è nostro; e dopo, sarà pur nostra anche quella gloria, «nella quale egli è entrato quale nostro precursore e Pontefice eterno!». Questa inebriante Speranza, questo costante desiderio, questa visione amorosa del cielo sono una grazia preziosissima e speciale del Sacerdote; ma debbono pure costituire la sua costante occupazione, e come la sua vita e il suo stato naturale. Certamente egli non rifiuta quaggiù il sacrificio sotto qualsiasi forma, sa benissimo che non avremo parte al Sacrificio eterno del sommo Sacerdote, se non alla condizione di essere stato sulla terra Ostia con Lui. Ma egli è del numero di quelli che «non contemplano ciò che si vede, ma ciò che è invisibile; perché le cose visibili sono temporali, mentre le invisibili sono eterne (2 Cor 4, 18). Egli ha compreso che la vita presente, secondo un bel pensiero di sant'Ambrogio, non deve essere altro che «una fuga dell'anima verso i beni veri e la patria vera» (458). Il vero Sacerdote è «un uomo risorto che non cerca, e non ama se non le cose di lassù» (Col 3, 12). È tutto celeste nei suoi pensieri, nei suoi gusti, nei suoi progetti. «Il suo cuore è là dove sta il suo Tesoro» (Mt 6, 21) e il suo Tesoro è Dio, Dio solo, al quale unicamente vuoI piacere in questo esilio, onde poterlo poi vedere e possedere eternamente in cielo.
     Felice quel Sacerdote che vive in una tale speranza forte e umile, soave e perseverante! Come per lui le prove vengono raddolcite! Come sopporta il lavoro! Com'è serena, calma e pacifica la sua vita interiore! Come dalle consolazioni ritrae vantaggio e conforto!
     La sua vita esterna, com'è ordinata, edificante e santa! Si direbbe, giusta una parola di san Lorenzo Giustiniani, che nel mezzo di questo secolo di oscurità e di tenebre, «la sua anima sia in una perpetua vigilia dell'eterna solennità»! (459).

NOTE
(445) ISA., IX, 6. – JOAN., III, 16; JOAN., IV, 10; Tit., II, 14, ecc.

(446) Rom., VI, 8. – Ibid., 4. – Ephes., II, 5, 6.

(447) Sermo XXVI. – In Nat. Domini, VI, cap. II.

(448) Ad Trasimundum, I, 10. – S. Prospero dice con eloquenza: Sed quod era vitiatum in me, ut superaret in illo. – Factus sum Christi corporis, ille mei;- Me gessit moriens, me vieta morte, resurgens; – Et secum ad Patrem me super astra tulit. – Poema conjugis ad uxorem.

(449) De excessu fratris sui Satyri, lib. II

(450) De Fide, lib. IV, cap. I, n. 7.

(451) De Resurrectione carnis, cap. LI.

(452) In psalm., XXVI. Nos itaque in ipso veluti in altero generis nostri principio eramus, qui valido cum clamore et lacrymis (in Cruce) enixe deprecabamur. – S. CYRILL. ALEX., Ad Reginas

(453) Sermo XXIX, in Pasch., I.

(454) Philipp., III, 20. – Conversati o, id est vitae ratio. – Tertulliano traduce: Noster municipatus in coelis est. – De corona militis, cap. XIII.

(455) In Act. Apost., Homil. III.
 
(456) In Epist. ad Hebr., Homil. XXIV.

(457) Ps., XXI, 10, 11. – Thren, I II, 24, 25. – Ps., CXXIV, I: XXXIX, 2; LXX, 1

(458) Vitae enim fons summum illud bonum, cujus charitas nobise et desiderium accenditur, cui appropinquare et misceri voluptas est… Fugiamus ergo in patriam verissimam. Illic patria nobis, et illie Pater a quo creati sumus… Sed qua e est fuga? Non utique pedum… Fugiamus animo, et oculis… Assuescamus oculos nostros videre quae dilucida et clara sunt. ­ De Isaac et anima, cap. VIII.

(459) Spes est vigilia quaedam solemnitatis aeternae. De Spe, cap. II.