La fede

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

 

SACERDOTE E OSTIA

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LIBRO TERZO

LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO

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CAPITOLO TERZO. LA FEDE

 

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    Chi dice Sacerdote dice Ostia. Chi dice Ostia dice Religioso; chi dice Ostia perfetta dice Religioso perfetto. Il Sacerdote è il perfetto Religioso di Dio; la Religione che è il complesso ammirabile degli omaggi dovuti a Dio è in fondo, la sostanza, la grazia interiore, il carattere esterno di tutta la vita come di tutto l'essere del Sacerdote. Ma la Religione abbraccia e comprende gli atti di tutte le virtù (403); perciò il Sacerdote, vero e perfetto Religioso di Dio, è sempre Ostia nella pratica di tutte le virtù, perché ne osserva e ne esercita gli atti in ispirito di Ostia.

    Secondo il sentimento dei Padri, la pratica medesima delle virtù soprannaturali è un Sacrificio perpetuo; sia a causa della Religione che «comanda a tutte le virtù» (404), sia perché intrinsecamente nessuna virtù si forma in noi senza l’immolazione e il sacrificio di tutto quanto vi si oppone (405). li

    Il Sacerdote, Ostia di Dio, Ostia eletta, preferita, consacrata in una maniera speciale, solenne e autentica, è  dunque obbligato; più di qualunque fedele, alla pratica perfetta delle virtù cristiane.

     La prima di tutte le virtù cristiane, è la Fede, perché questa le costituisce cristiane. In questo senso, la Fede precede la Religione, perchè «per avvicinarsi a Dio» e rendergli omaggio, «prima di tutto bisogna credere che Egli è» (Eb 11, 6) quale lo dobbiamo onorare, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Orbene, dalla Fede conosciamo che cos'è Dio. Ma, sotto un altro aspetto, la Fede è parte della virtù di Religione, perché tutti i suoi atti sono omaggi resi a Dio, prima alla sua veridicità che è il motivo della nostra fede, poi agli altri divini attributi, quando essi sono l'oggetto della fede. Questa virtù teologale si riferisce ancora alla Religione, perché essa è un sacrificio e una immolazione perfetta della nostra ragione (406). Nell'atto di fede, infatti, la ragione senza vedere, crede così fermamente e anche con maggior forza che se vedesse (407).

    Questa Fede religiosa è il carattere distintivo del cristiano, il quale, per tal motivo, viene chiamato con quel bel nome di fedele, vale a dire, che ha la fede. San Giovanni Crisostomo professava la più grande ammirazione per questo nome glorioso, né dubitava di dire che la fede forte e accompagnata dall'amore è il culto più onorevole che Dio possa ricevere dalle sue creature, e in pari tempo la prova di una mente superiore e di un'alta intelligenza: «Generosissimi est animi… mentisque sublimis… Deum certe colit qui praecepta implet; multoque magis hic qui per fidem philosophatur. Ille quidem ipsi obedivit; hic vero convenientem de illo opinionem concepit, et magis quam per operum ostensionem ipsum glorificavit» (408).

    Orbene, il Sacerdote è il fedele per eccellenza, e «il modello di tutti i fedeli nella fede»; l'uomo della «mente grande, generosa, elevata»; l'uomo dei pensieri «sublimi», che onora e glorifica Dio, formandosi grandi concetti della sua Maestà, della sua essenza e della sua opera, perché è per intero «applicato a ciò che riguarda la fede» (1 Tm 4, 11-12); egli sa, secondo un detto di sant'Agostino, che «la fede lo ha ordinato e consacrato Sacerdote» (409). Perciò la fede, «la fede del Figlio di Dio», la fede di cui «GESÙ è Autore e Consumatore», è veramente l'unica sua vita» (410).

    La Fede deve essere illuminata, vorremmo dire dotta, ­ purissima, – semplice, – ferma, – forte.

I. – Illuminata. – Il Sacerdote è «il depositario naturale, il custode» e come il padrone e possessore della Fede (411); non già per fame ciò che gli piace, ma per valorizzarne l'inestimabile tesoro, difenderlo contro ogni sorta di insidia e di aggressione e, in pari tempo, fame conoscere a tutti le ammirabili ricchezze. O tesoro d'un prezzo tutto divino! Il Diacono deve già «possederne il Mistero con una coscienza pura» (1 Tm 3, 9); ma il Sacerdote ne possiede tutta la ricchezza; misteriosamente porta la fede su le sue labbra per rivelarla al mondo (Ml 2, 7), e «sul suo petto», per indicare ch'essa è e rimane sempre il suo tesoro e la sua felicità (Es 28, 30). Questo tesoro trovasi in tutta la sua persona: il Sacerdote è l'uomo soprannaturale senza uguale nel mondo, e la fede lo rende più grande di tutto il mondo, lo innalza sino ai cieli.

    Perciò tutto quanto è insegnamento della Fede o vi si riferisce è l'oggetto principale della scienza del Sacerdote. Con quale godimento egli penetra in quel mondo soprannaturale, mercé lo studio, la lettura e la contemplazione! Quale santa avidità nell'applicarsi a conoscere esattamente, in una maniera precisa e luminosa, ciò che è la Fede in se stessa, sia come abito, sia come atto! Quanto lo commuove la meravigliosa condiscendenza di Dio che infonde nelle anime nostre quella conoscenza, quella scienza che Egli medesimo ha della sua propria vita! – La Fede, infatti, è una partecipazione soprannaturale della visione che Dio ha di se stesso (412); una vera deificazione della nostra intelligenza, che vede la verità rivelata nella medesima luce nella quale la vede Dio, luce che è pure quella dei Beati. La Fede quindi, in tutta verità, è l'inizio della vita eterna (413). Il principio di questa grazia magnifica non è né può essere altro che Dio rivelantesi per mezzo del suo Verbo. Il motivo non è né può esserne altro che la veracità medesima di Dio. Dimodochè, mentre nulla è più oscuro dell'oggetto della Fede, nulla è più luminoso del principio e del motivo della Fede (414). Essa comunica dunque all'anima una certezza che assolutamente non ha uguale; neppure l'evidenza di ordine naturale può esserle paragonata. D'altra parte, l'atto di fede è talmente soprannaturale nel suo motivo, che la scienza naturale più profonda e più elevata, la più penetrante intelligenza naturale angelica o umana; tutto quanto può esservi in qualsiasi spirito creato di risorse per la percezione della verità, dei motivi di credibilità e dei fondamenti teologici dei misteri; niente di tutto questo concorre efficacemente all'atto di fede. Questo, in se medesimo e nella propria essenza, è opera della grazia di Dio; il suo essere proprio sta in questo che esso è esclusivamente e intrinsecamente soprannaturale.

     Ma il Sacerdote sa pure che benché tutto sia diVino nella virtù e nell'atto di fede, le verità ch'essa ci fa conoscere ammettono lo studio sotto ogni aspetto; e qui sta la parte della ragione. Perciò, per essere in grado di insegnare ai fedeli quanto è opportuno, egli si applica a conoscere bene tutta l'estensione delle verità rivelate; le loro attinenze con la mente, col cuore, con la pietà e la intera pratica della vita; le conseguenze che ne derivano e che bisogna ritrarne in ogni circostanza, per la nostra consolazione, come per il nostro aiuto. Parimenti, si esercita a distinguere perfettamente ciò che essenzialmente appartiene alla dottrina, ciò che è articolo di fede, da ciò che è appena conclusione teologica: onde evitare, in qualsiasi occasione, espressioni e proposizioni erronee, inesatte o almeno esagerate. In tal modo, a seconda della intelligenza che la Provvidenza gli ha data e del tempo di cui dispone, egli dedica ad una piena e perfetta conoscenza della Fede tutto l'ardore più vivo di cui è capace, perché sa che tale conoscenza bella, grande e santa è la forza più potente che lo sorreggerà nella pratica della vita perfetta, come delle virtù più sublimi, ed è inoltre, per tutti, l'unica «luce della vita» (Gv 8, 12).

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     2. – La fede del Sacerdote deve essere purissima: purissima significa che nulla possa alterarla. È chiaro che la vera scienza della fede, considerata in se stessa, è sempre un bene e non può mai essere un pericolo. Ma, perché una tale scienza suppone una certa conoscenza degli assalti che la filosofia incredula muove incessantemente ai nostri Misteri, potrebbe darsi che, più della violenza di tali assalti, l'astuzia diabolica facesse sopra di noi una impressione pericolosa. Il Sacerdote, specialmente il giovane Sacerdote, sia prudente e si guardi bene da una certa presunzione e dal fascino della curiosità. Vi sono errori sottili, presentati con tale abilità, che molti lettori abboccano l'amo; e la loro fede ne rimane scossa o diminuita. Anche per noi Sacerdoti, il pericolo sussiste sempre; l'obiezione, sotto qualche forma, potrebbe lasciare in noi la sua punta avvelenata. Vorremmo forse dimostrarci concilianti e buoni al riguardo delle persone; ma potrebbe avvenire che, con tale disposizione non avessimo sufficiente avversione a ciò che è contrario alla Fede; questo sarebbe uno scoglio pericolosissimo (415). Stiamo dunque in guardia. La fede è vergine, dicono i Padri, qualsiasi alterazione della Fede è un adulterio… «Piuttosto la morte, esclamava sant'Ilario, che corrompere, la casta verginità della verità!» (416). Per le persone dobbiamo provare estrema compassione; ma per il peccato di eresia un orrore estremo. L'eresia rovina totalmente l'opera della Redenzione e i disegni della eterna misericordia; non distrugge solamente l'edificio della Grazia, ma ne sconvolge le fondamenta; san Tommaso ha detto ch'è «il più grande di tutti i peccati contro le virtù morali» (417). L'anima, sacerdotale, animata dallo zelo di Dio, sente contro di essa violenta avversione e odio profondo. Il Padre Faber ha scritto: « Dove non v'ha odio dell'eresia, là non v'è santità… L'eresia è il peccato dei peccati, il più nauseante degli oggetti sui quali possa abbassarsi l'occhio di Dio in questo mondo pur tanto pieno di malizia; è sozzura gettata sulla verità divina, la peggiore delle impurità… Eppure con quanta leggerezza noi la trattiamo! Noi vediamo, e restiamo calmi; viviamo in mezzo ad essa, senza tremare; ne respiriamo l'odore e non manifestiamo alcun segno di orrore o di disgusto. Non amiamo abbastanza Dio, per entrare in sua santa collera per la sua gloria: non amiamo abbastanza gli uomini, per rendere alle loro anime il servigio di essere veraci al loro riguardo. La nostra carità non è vera poiché non è severa; non è persuasiva, perché non è verace. Ci manca la devozione alla verità, in quando è verità di Dio» (418).

    Prendiamo queste gravi parole per regola della nostra condotta. Conserviamo e alimentiamo nei nostri cuori una opposizione assoluta a tutto quanto non è purissimo insegnamento della chiesa cattolica e della santa fede. Osserviamo sempre, con tutta rigidezza, le regole dell'Indice e le sue decisioni. Se ci sembra che il dovere ci imponga di leggere qualche libro di dubbia dottrina, consultiamo il confessore; e se abbiamo il permesso di leggerlo, mortifichiamo la nostra smania, se smania c'è, e preghiamo perché nulla possa disturbare la serenissima purezza della nostra fede. Riguardo alle letture, ascoltiamo il suggerimento di Tertulliano: Nobis curiositate opus non est post Jesum Christum, nec inquisitione post Evangelium… Cedat curiositas fidei et gloria (humanae sapientiae) saluti (Lib. de Praescript., cap. VII).

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    3. – Se la nostra Fede è purissima, necessariamente sarà anche semplicissima. La semplicità della Fede è una disposizione interiore che risiede tanto nel cuore come nell'intelligenza; e per la quale, prima, durante e dopo ogni studio ed ogni esame; prima, durante e dopo ogni obiezione o tentazione, noi diciamo senza nessuna esitanza, in tutta pace, e in nessun modo assoluto: «Credo! Credo a Dio che ha parlato; credo alla Chiesa che me lo insegna! Vi sono delle oscurità, anche delle inverosimiglianze: cos'importa? Credo! Vi sono pretese della scienza: cos'importa? Credo! Vi sono defezioni e apostasie: Credo senza turbamento, senza agitazione e senza titubanza. La mia fede è la verità, unica, irremovibile, eterna, credo! Ai dubbi interiori, agli assalti esterni del mondo e del demonio, rispondo con una parola sola, sempre quella: Credo»! Risposta umile, ma netta, precisa e invariabile. C'è forse pericolo che il progresso delle scienze umane apporti qualche scoperta che smentisca la nostra fede? No! «quel no semplice, secco e breve», di cui parla Bossuet, e che bisogna, con tutta semplicità, opporre alla tentazione qualunque sia e da qualunque parte venga (419).

    La scienza non è nemica di una tale umile e franca disposizione di cuore e di mente. Tutt'altro, poiché la vera scienza ci rivela la vera e pura natura dell'atto di fede nel quale né il talento, né il genio, né la contemplazione, né la visione medesima, intrinsecamente, han nulla da fare, essendo l'atto di fede una pura grazia e un dono di Dio. Questa nozione preserva l'esercizio della fede, nel Teologo, da ogni elemento estraneo e da ogni errore. Perciò le intelligenze più grandi, come un sant'Agostino e un san Tommaso, furono, nella Chiesa, i più semplici e più umili dei Credenti.

    Quella bella disposizione interiore, si applica pure a qualsiasi dottrina, che, pur rimanendo ancora di libera discussione, è però riconosciuta come quella che è preferita dalla Santa Sede. Dotto o no, il Sacerdote più di qualunque fedele si professa figlio della Chiesa e della Santa Sede infallibile; e benché non sia ancora obbligato a fare l'atto formale di fede, egli già, per la preferenza della Chiesa, conosce dove si trova la verità; non dirà ancora: Credo!, ma senza timore d'inganno, dirà almeno: Confido! È chiaro che un tal sentimento è secondo Dio e viene da Dio. È questo l'atto di amor filiale che, al dire di sant'Agostino, dimostra che abbiamo in noi lo Spirito Santo (420).

 

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    4. – La nostra Fede deve essere ferma. La semplicità medesima della Fede ne produce la fermezza. Ciò che è semplice è uno, e ciò che è uno è indistruttibile. L'umiltà di quella parola: «Credo!» risponde a tutto, quindi mette pienamente al sicuro la immunità della Fede. Bisogna che, nel Sacerdote, la Fede sia semplice e ferma, perché, più di qualunque altro, egli si trova in presenza di eventi che sono veramente prove nella Fede e tentazioni contro di essa.

     Come sono misteriose, soprattutto nell'ora presente, le vie della Provvidenza! Quanti enigmi! Quante oscurità! – Dio è il sovrano Padrone dell'universo: e si direbbe che la libertà dell'uomo di tutto dispone, senza ritegno né misura, a danno degli interessi di Dio. – La Chiesa è la Figlia prediletta del Padre, la Sposa immortale del Figlio, la Cooperatrice sempre fedele dello Spirito Santo. Nessuna gloria, quindi, che possa paragonarsi alla sua, perciò il trionfa, ci pare dovrebbe essere la stato abituale della sua esistenza. Ma no! avviene il contrario, almeno in apparenza: talora la sua causa, la causa della sua libertà e del suo onore, sembra una causa persa. – GESÙ è vincitore nel mondo: eppure il monda sembra prevalere e trionfare dei Santi, del Vangelo e della grande opera della Redenzione. Umanamente, la fortuna, l'onore e l'influenza sono la felice condizione del male e non del bene. – Ecco il Mistero del tempo presente, cioè, di tutti i secoli del tempo. Orbene! conservar la fede, vuol dire dar sempre ragione a Dio, senza mai scandalizzarsi del suo silenzio, della sua apparente noncuranza e dell'audacia che i suoi nemici ostentano contro di Lui e ch'Egli non impedisce; vuol dire adorare, con semplicità e fermezza «i suoi incomprensibili giudizi e le sue vie impenetrabili» (Rm 11, 33); vuol dire umiliare con forza la nostra ragione obbligandola a dire: Non est sapientia, non est prudentia, non est concilium contra Dominum (Prv 21, 30). Quod stultum est Dei, sapientia est hominibus; et quod infirmum est Dei, fortius est hominibus (1 Cor 1, 25). Il Mistero è la condizione di questa vita d'esilio. Quaggiù siamo nell'ordine della Fede, e non già in quello della chiara visione (1 Cor 5, 7). L'oscurità, l'enigma e il mistero di tante cose umane, non provengono dalla sostanza delle cose, ma dall'incapacità della nostra mente, che non è in grado di conoscerne né la ragione, né il fine, né, il posto che occupano nel disegno immenso della Provvidenza divina (421). Perciò, la parola che esprime l'interiore disposizione dell'anima nostra, disposizione costante, ferma, semplice, sicura, gioconda anzi ed affettuosa, è sempre quella parola, umile e tranquilla: «Credo!». Abramo fu tentato, tentato da Dio: ma non dubitò punto di credere, ad onta di ogni opposizione della ragione; la sua fede ha meritato l'ammirazione dei secoli tutti. San Paolo l'ha esaltata nelle Epistole ai Romani e agli Ebrei (Rm 4; Eb 9) e la Chiesa, che ha ricevuta la pienezza della Fede, chiama, ancora Abramo, «Padre dei credenti» (Rm 4, 11), come ha detto san Paolo.

     Noi pure, «ben fondati nella Fede» (Col 1, 23) come «sopra un fondamento che sta, perché costituito da Dio» (2 Tm 2, 18-19), manteniamoci fermi e irremovibili. Perdere la ragione, cadere in demenza, sarebbe una terribile prova; eppure, piuttostochè perdere la Fede dovremmo essere contenti di perdere la ragione.

 

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    5. – La nostra Fede deve essere forte; ferma nei suoi atti, forte nei suoi effetti. In mezzo alle nostre prove, noi per la virtù della nostra fede, abbiamo una forza invincibile, Le nostre prove!… Esse costituiscono il complesso di quasi tutta la nostra vita. San Paolo le conosceva: Quoniam supra modum gravati sumus supra virtutem, ita ut taedreret nos etiam vivere (422). I Santi tutti le han pure conosciute (Eb 11, 36-39). Non già che la vita di qualsiasi Sacerdote porti gli stessi caratteri dolorosi. Ma una volta o l'altra, la croce s'impone (423). E non ci arriva sotto una forma sola, ma con una varietà quasi infinita di aspetti e di effetti dolorosi. Nell'interno, il timore e la tristezza, il sentimento amaro delle umane ingratitudini, le tentazioni più o meno formidabili o delicate; poi l'infermità e con questa l'impotenza. Al di fuori, la contraddizione, l'ingratitudine, persino la calunnia… Quante croci, accumulate talvolta in una sola vita, ed anche in qualche periodo di una medesima esistenza! Aggiungeremo anche, per dir tutta la verità: che forse, nell'intimo della coscienza, dovremo riconoscere che la nostra prova, in parte almeno, è ben meritata, perché avremo almeno mancato di prudenza: In questo sta la differenza tra i peccatori e i Santi. Per questi, la croce è tutta un dono di Dio, dono della sua destra, del suo cuore, della sua santità che vuol farne vere copie di GESÙ CRISTO; per noi peccatori, la croce è una disposizione dell'adorabile e sempre paterna Provvidenza, che approfitta dei nostri sbagli o dei nostri peccati per imprimere in noi pure, mercé la penitenza, i lineamenti del Figlio di Dio.

    Ad ogni modo, ciò che importa, è di non cadere nei lacci di quel nemico mortale che si chiama lo scoraggiamento. Se questo dovesse riuscire a prenderei nelle sue reti mortali saremmo perduti. Bisogna rimanere in piedi, calmi e forti.

     Quale sarà il mezzo di non soccombere, e di conservarci liberi e invincibili? Non già lo sprezzo superbo degli uomini e delle cose umane. No! tale disprezzo non sarebbe cristiano, meno ancora degno di un Sacerdote. Poi, a dir il vero, il disdegno non è mai una forza; non innalza l'uomo al disopra della prova, ma al contrario, lo abbassa; non è altro, con quell'aria di falsa dignità, che una maniera miserabile di rimaner vinto. Neppure in una specie di freddo stoicismo e di filosofia indifferente e scettica potremo trovare il punto d'appoggio e solido, di cui ha bisogno la nostra anima spossata; una disposizione di tal genere non è durevole, e, in ogni modo, riesce a diminuire considerevolmente gli animi migliori. Il punto di vista personale, l'esagerazione del proprio valore intellettuale e morale, un certo egoismo forse sino a un certo punto incosciente, ma pur non meno reale, s'impossessano dell'anima e tutto si rimpicciolisce: intelligenza, energia, virtù. No! nulla di tutto questo potrà procurarci quel bene che ci è necessario. Meno ancora se è possibile, sarebbe giovevole uno stato di dissipazione, atto a stordirci e a distrarci dalla nostra pena, o di sensualismo tutto laico nel quale avessimo da cercare un certo compenso. – Non insistiamo. La Fede solamente, sarà il nostro infallibile sostegno e la nostra forza indomabile: il pensiero di Dio, della sua Provvidenza, della sua onniscienza, dei suoi giudizi dopo la nostra morte e alla fine del mondo; – la considerazione della essenziale. vanità di tutte le cose umane e terrene, in confronto della stabilità unica dei beni futuri; – la convinzione umile e dolce che la sofferenza è per noi un bene, perché dobbiamo compir quaggiù l'espiazione per evitare una irrevocabile condanna nell'altra vita; – il ricordo della Passione di Nostro Signor GESÙ CRISTO, Passione sì dolorosa e sì ignominiosa, che la Santità medesima ha voluto subire per nostro amore e per nostro esempio (I Pt 2, 21); – il sentimento dolcissimo al cuore, della Presenza di questo amabile Signore nel SS. Sacramento, Presenza vivente amorosa, compassionevole; – e qualsiasi altro pensiero che risponderà alla necessità attuale della nostra anima afflitta, abbattuta, desolata.

     Nel suo affanno l'anima nostra si attacchi con forza alla Fede, e la vittoria sarà sicura. Forse, e senza forse, il dolore rimarrà l'assiduo compagno della nostra vita, ma sarà santificato: e cosa potremmo desiderar di più? E, se si tratta di persecuzione da parte, degli uomini, i vinti non saremo noi, ma, in realtà, saranno quelli che ci perseguitano (424).

     Una Fede forte! o Dio! Quale grazia di un prezzo inestimabile! Preghiamo perché ci sia dato lo spirito dei martiri.

 

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 NOTE

(403) Verum sacrificium est omne opus quod geritur, ut sancta societate Deo jungamus. – S. AUG., De Civ. Dei, lib. X, cap. VI.

(404) S. TH., II, II, q. LXXXI, a. I.

(405) Ego dico virtutes esse sacrificium Deo gratum. Eum glorificamus qui est pro nobis sacrificatus, nos ipsos sacrificantes. – CLEM. ALEX., VII.

(406) Cfr.: BOURDALOUE, Sermon sur la S. Trinité.

(407) S. TH., II, II, q. IV, a. 8

(408) In Epist. ad Rom., Homil. VIII. – Est igitur incredulitas mentis infìrmae, pusillae et miserae. Quoties nobis nonnulli credulitatem vitio vertunt, illis contra viti o vertamus incredulitatem ut… insipientibus et asinis nihilo melius habentibus… Credulitas animi est magni ac sublimis, incredulitas animi est exilis, ratione maxime carentis et ad pecudum amentim depressi. – Ibid.

(409) Sermo 284, cap. IV.

(410) Hebr., XII, 2. – Galat., II, 20.

(411) I Tim., VI, 20. – I Tim., VI, 12. – Ut acerrimum se ostendat fidei defensorem, propagatorem, etc. – CORN. A LAP

(412) S. TH., I, II, q. CX, a. 4.

(413) S. TH., In Hebr., XI, I; II, II, q. IV, a. 1; II, II, q. XXIV, a. 3; I, II, q. CXI, a. 3.

(414) Si può applicare qui quel testo: Sicut tenebra e ejus, ita et lumen ejus.- Ps., CXXXVIII, 12.

(415) Impolluta est (Sapientia) Virginitatisque perpetuae, et quae, in similitudinem Mariae, cum quotidie generet, semperque parturiat, incorrupta est. – S. HIERONYM., Epist., LII ad Nepotian. – Per fidem Christo sponso anima desponsatur, ut quasi fides sit anulus desponsationis hujus. S. BERNARD. SENENS., De fidei firmitate.

(416) Melius est mihi in hoc saeculo mori, quam castam veritatis virginitatem corrumpere. – Lib. I, Ad Const. August. – Virginitatern corporis paucae faeminae habent in Ecclesia, sed Virginitatem cordis omnes fideles habent. – S. Aug., In Psal., XC.

(417) S. TH., II, II, q. X, a. 3.

(418) FABER. Prezioso Sangue, cap. VI. – Cfr.: Al Piè della Croce, cap. VII.

(419) Elévation sur les mystères, XXIV sem. I.a Elév.

(420) Quantum quisque amat Ecclesiam Christi, tantum habet Spiritum Sanctum. – In Joann., Tract. XXXII.

(421) Etiamsi Deus impossibilia promittat, nec qui audit admittat illa, infirmitas illa non ex rerum natura, sed a non admittentis stultitia proficiscitur. – S. JOANN. CHRYSOST., In Epist. ad Rom., Rom. VIII.

(422) 2 Cor., I, 8, 9; VII, 5.

(423) v.: De imitatione Christi, lib. II, cap. XII, 3-8.

(424) I Joann., V, 4. – Calcari non potest, nisi inferior; sed inferior non est qui, quamvis corpore multa in terra sustineat, corde tamen fixus in caelo est. – S. AUG., De serm. Dom. in monte, lib. I