Il sacerdote e la temperanza

  • Categoria dell'articolo:Spiritualita

qui a lato: San José María de Yermo y Parres (1851-1904), presbitero

 

 

Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins

Verso le vette della Santità Sacerdotale

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RITIRO DEL MESE DI AGOSTO

IL SACERDOTE E LA TEMPERANZA

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Le virtù morali stabilendo l'equilibrio nell’anima, la mettono in grado di sviluppare la sua vita in tutta la sua pienezza e fecondità.

Come già le tre prime, cosi quest'ultima virtù cardinale tende a tale scopo, ma in modo più speciale, consistente nel neutralizzare l'opposizione, nell'impedire l'effetto delle forze contrarie.

La temperanza domina le passioni più perfide, perché più aderenti al senso, e le disciplina vigorosamente.

La S. Scrittura la tiene perciò in particolare stima. E' compagna della scienza: Qui diligit disciplinam, diligit scientiam (Prov. 12, 1); apporta sapienza; Audite disciplinam et estote sapientes (Ps. 8, 33); genera vita: Via vitae custodienti disciplinam (Prov. 10, 17); la si può identificare, in un certo senso, con la vita stessa: Tene disciplinam, custodi illam, ipsa est vita tua (Prov. 4, 13).

Il suo nome di temperanza è tutto un programma. Non dice forse giusto mezzo, esatta misura, padronanza di sé, fortezza?
Si tratta quindi di una virtù ricca e preziosa.

Vediamo l°: che cos'è; 2°: che cosa produce.

 

1. – CHE COS'È' LA TEMPERANZA

Classicamente la si definisce: Virtus moderans appetitimi circa dilectiones tactus. S. Tommaso più esplicito dice: Nomen temperantiae signiflcat quamdam temperiem, id est moderationem quam ratto ponit in humanis operationibus et passionibus; quod est commune in omni virtute morali (36). E' dunque, secondo Bossuet, «la virtù che insegna ad essere moderati in tutto»; diciamo semplicemente, ad essere ragionevoli. Infatti, un atto non conforme a ragione non è buono; ma la ragione esige ponderazione, moderazione, quindi temperanza.

Chateaubriand poté scrivere: «Le passioni, figlie del cielo, generano il genio». Disgraziatamente però in conseguenza della colpa originale, le figlie del cielo furono asservite dall'inferno, e se, dopo la Redenzione, possono essere reintegrate in un'atmosfera di bellezza, permangono tuttavia forze perfide anche in coloro, nelle cui vene fu inoculato il Sangue di Cristo mediante i Sacramenti. Potranno essere ancora ispiratrici del genio, ma spesso del genio malefico, ed eserciteranno una trista influenza, e s'adopreranno a detronizzare l'anima, regina del composto umano, a scoronarla, a rapirle il suo scettro per rimetterlo in balìa dei sensi: Caro concupisca adversus spiritum (Gal. 5, 17). Quindi è dovere imperioso frenarle, vincerle per farle rinsavire. Non si trasformano però in agenti preziosi della volontà, se non ne divengono schiave; ma solo la temperanza impone loro il giogo.

Essa desta dunque subito l'idea di lotta, di fatica, di sforzo. Non è, come vorrebbero alcuni, «la virtù fiacca degli spiriti mediocri, delle intelligenze limitate, delle timide volontà». Il temperante è un combattivo. «Mantenersi ad uguale distanza fra due passioni estreme, fra l'orgoglio e la bassezza, tra la ribellione e il servilismo, fra la sensualità e l'aridità del cuore, fra la temerità e la codardia, tra l'avarizia e la prodigalità» (37) questo non è proprio né del vile né dello stolto.

Neppure la si potrà confondere con quel liberalismo perverso che, pretesto della neutralità, ammette ogni errore, assolve ogni scandalo, e s'asside con uguale indifferenza alla mensa del Signore e al festino di Satana. Per il temperante memore della parola del divino Maestro: Qui non est mecum contra me est (Mat. 12, 30), la verità è intransigente, la morale infrangibile.

Non la si confonda neppure con l'insensibilità di certi esseri atoni o apati. La mancanza di sensibilità, sia difetto naturale o conseguenza d'abusi, non è terreno propizio alla fioritura della virtù; non ci si impegna in combattimento che su un campo di battaglia, e il combattimento richiede virtù energica.

Se in generale ogni passione è terreno propizio per le lotte della temperanza, v'è tuttavia un campo d'azione propriamente suo: quello dei diletti sensibili.

Tali diletti sono per noi un costante pericolo; gravano tirannicamente su tutti ed esercitano la loro seduzione anche sulle anime più forti. Qual'è il prete che un giorno o l'altro di sua vita non abbia dovuto far suo il lamento dell'Apostolo: Angelus satanae qui me colaphzet? (2 Cor. 12, 7).

Sì possono distinguere tre cause di questo fenomeno. Anzitutto i piaceri dei sensi sono più accessibili che quelli dello spirito, i quali esigono spesso tutto un lavorio preparatorio di adattamento e di astrazione. Poi, le gioie sensibili non interessano soltanto la parte superiore dello spirito, come le gioie intellettuali, ma agitano tutti gli elementi della nostra sostanza dall'immaginazione che assorbono, ai nervi che fanno vibrare. Infine, dopo il peccato di Adamo, che ha distolto gli sguardi da Dio per fissarli in basso, la concupiscenza della carne regna sul mondo, è un fuoco che serpeggia nel nostro sangue, è un amore dei vili diletti che non conosce legge e abbatte ogni diga, quando non si sa regolare la brutalità del suo flusso e riflusso. In quest'ordine di cose, dominano sopratutto due vizi: la gola e l'impurità. Siccome non v'è n'è alcuno più radicalmente e assolutamente incompatibile con l'anima sacerdotale, concludiamo che nessuna virtù dev'essere nostra quanto la temperanza, che reprime vittoriosamente sì ignobili vizi.

Il sacerdote è di Cristo, e qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis (Gal. 5, 24), mediante la temperanza. Il sacerdote è l'uomo delle più alte vette, super montem excelsum ascende, tu, qui evangelizas Sion (Isai. 40, 9); forte della temperanza, deve svincolarsi da qualsiasi laccio che lo possa avvincere al suolo. Il sacerdote fa parte di coloro di cui è scritto: Pulchritudinis studium habentes, perché è scritto pure: Quam pulchri super montes pedes et annuntiantis pacem (Isai, 52, 27); sarà l'uomo della bellezza vera mediante la temperanza e realizzerà così la parte del suo programma che lo obbliga a essere excelsior coelis factus.

Ascoltiamo il Dottore Angelico: Quamvis pulchritudo conveniat cuilibet virtuti, excellenter tamen attribuitur temperantiae (38). E le tre ragioni che adduce sono convincenti.

La prima condizione della bellezza è la proporzione: Pulchra dicuntur quae visa placent (39). Ove non è armonia di proporzioni non può essere bellezza vera. Ora, la temperanza che modera, che mette ogni cosa al suo posto, stabilisce armonia in tutto. La natura è bella perchè in tutto vi è ordine, equilibrio; così nell'anima temperante.

La seconda condizione della bellezza è l'integrità: Quae diminuta sunt, hoc ipso turpia sunt (40). Quest'integrità consiste nell'universalità della proporzione. L'anima giusta nei suoi pensieri, ma smodata nei suoi affetti, non è bella; lo diverrà con la temperanza che estende su ogni facoltà la sua influenza moderatrice.

La terza condizione della bellezza è lo splendore: Honestas est quaedam spiritualìs pulchritudo… Ad temperantiam specialiter honestas pertinere videtur, quae id quod est homini turpissimum et indecentissimum repellit (41). L'anima, spirito creato ad immagine dell'eterna Bellezza, è raggiante di luce quando è pura: Homo cum in honore esset… (Ps. 48, 12). La temperanza facendole evitare tutto ciò che è obbrobrioso, la preserva da ogni macchia contaminante e la conserva nella sua spirituale bellezza.

Non occorre insistere; la temperanza è una virtù per noi indispensabile. La chiederemo dunque a Dio con insistenza: Bonitatem et disciplinam et scientiam doce me (Ps. 118, 66); poi, generosi, ci applicheremo all'acquisto delle virtù morali che le fanno corona.

 

2. – QUALI VIRTÙ PRODUCE LA TEMPERANZA

Anche senza approfondire l'analisi, è facile ammettere che la temperanza deve anzi -tutto frenare la volontà scossa dall'impeto delle passioni; reprimerla nei suoi moti incomposti verso quanto le passioni desiderano, al punto da farle superare ogni ostacolo; calmarla quando, insoddisfatta o contrariata, sarebbe disposta ad abbattere l'opposizione con violenza. Donde tre forme di temperanza: la continenza, l'umiltà, la dolcezza.

a) La continenza. — Il peccato non è che orgoglio e il P. Lacordaire ha detto molto giustamente che l'uomo pecca per adorazione di sé. Ma anzitutto si adora nei sensi; la concupiscenza della carne è la passione di cui più brutalmente subisce l'insidia; sono suoi agenti la golosità e la lussuria. E' troppo evidente e non c'è bisogno di insistere né si esita a convincersi che in un'anima temperante, la mortificazione della gola, la sobrietà, la castità, e inoltre, per il prete, la verginità, devono essere virtù coltivate assiduamente, amorosamente.

1° La golosità, uso immoderato degli alimenti necessari alla vita, è un difetto un po' comune. La Provvidenza infonde un certo diletto nell'azione del mangiare e del bere, affinché l'uomo con più facilità prenda quanto è necessario al suo sostentamento. L'uso è ordine, l'abuso è disordine. La volontà fiacca oltrepassa facilmente i limiti del necessario o dell'utile. Si hanno ragioni, si trovano pretesti, si finisce per trasmodare e — cosa inverosimile in un prete — ci si preoccupa della mensa. S. Tommaso ci dispensa da una sgradevole descrizione: Quantum ad ipsum cibum… quaerit aliquis cibos lautos, id est pretiosos; quantum ad qualitatem, quaerit cibos nimis accurate praeparatos, id est studiose; quantum autem ad quantitatem, excedit in nimis edendo… vel quia praevenit tempus debitum comedendi, quod est praepropere; vel quia non servat modum debitum in edendo, quod est ardenter (42). E poco dopo parla de ebrietate!

Sarebbe mai utile ricordare anche a chi è fatto per le altezze la raccomandazione di S. Paolo: Sicut in die honeste ambulemus, non in comessationibus et ebrietatibus? (Rom. 13, 13).

Crediamo di no! A tutti nondimeno è utile la pratica della mortificazione e della sobrietà. Quanto è contrario a queste virtù offusca l'intelletto, aggrava il cuore, abbrutisce i sensi, istilla nell'anima elementi deleteri, finisce per scandalizzare i fedeli. Una mensa frugale cui ci si asside per brevi momenti, è la mensa dell'uomo attivo, intelligente, interiore; è la mensa dell'apostolo modello, predicatore tacito, ma vivente, di una penitenza che lo fa potente sul cuore di Dio e conquistatore di anime: semper mortificationem Jesu in corpore nostro circumferentes, ut et vita Jesu manifestetur in corporibus nostris (2 Cor. 4, 10).

2° Quando si è letto nel Genesi: Omnis quippe caro corruperat viam suam (Gen. 6, 12), è facile spiegarsi, pur rimanendone spaventati, la forza, l'universalità del vizio impuro, dal quale provengono, dice il Dottore Angelico, caecitas mentis, inconsideratio, praecipitatio, inconstantia, amor sui, odium Dei, affectus presentis saeeuli et horror futuri (43). Tale enumerazione è più che sufficiente per dimostrare che fra tanto male e l'anima del prete chaos magnum firmatum est. Almeno, dev'essere così ad ogni costo, fosse pure a costo della vita!

Con la castità — castigare — castigando la sua concupiscenza, l'uomo di Dio conserva lo Spirito di Dio: Fructus autem Spiritus est charitas, gaudium… modestia, continentia, castitas! (Gal. 5, 22). Con la verginità, rinunciando per sempre ad ogni vile piacere, conserva lo spirito in Dio: Virgo cogitai quae Domini sunt, ut sit sancta corpore et spiritu (1 Cor. 7, 34). Ed è questo un beneficio prezioso di tal forma di temperanza; la forza segreta ma immensa del vero prete è riposta nella perfetta purità, che lo rende Angelo; egli porta Dio in se stesso, come in una pisside d'oro, esala il profumo di Dio, vibra quasi un raggio di sole su tutto quanto lo avvicina senza toccarlo: Noli me tangere!… Mai!… perché Dio ci tocchi: Spiritus Domini super me (Mat. 8, 17).

b) L'umiltà. — L'orgoglio dello spirito, pur essendo meno percettibile dell'orgoglio della carne, non è meno universale. Tutti ne siamo infetti, coscienti o no, tutti ne siamo servi. Superbia superbire – super ire, vuoi farci dominare tutto; peccato dell'angelo e peccato dell'uomo, è causa di ogni caduta: Initium omnis peccati superbia (Eccli. 10, 15).Spaventosa quindi in tutti, lo è in modo speciale nel prete, naturale nemico del peccato, artefice di virtù, altro Cristo per la sua ordinazione.

Ora, del Cristo vincitore del male, santo di Dio, sta scritto: Humiliavit semetipsum (Phil. 2, 8). L'umiltà, humum ire, è dunque una virtù eminentemente sacerdotale. Il divino Maestro l'ha abbastanza predicata con la parola e con l'esempio: Qui se exaltat humiliabitur (Luc. 14, 11). S. Paolo ricorda in modo impressionante questo duplice insegnamento e ne trae la morale pratica: In humilitate superiores sibi invicem arbitrantes (Phil. 2, 3). Ma, si può affermare che tale virtù sia all'ordine del giorno e ci preoccupi sinceramente?

Oh, votiamoci generosamente alla pratica dell'umiltà, incoraggiati dalla promessa del sorriso di Dio a ricompensa del nostro sforzo: humilibus dat gratiam! (Iacob. 4, 6).

e) La dolcezza. — L'ira, vizio capitale da non confondersi con l'emozione, con l'indignazione santa di cui parlano i Salmi: Irascimmi et nolite peccare (Ps. 4, 5), è ordinariamente inseparabile dall'orgoglio. E' l'incontinenza dì una passione violenta che in modo brutale atterra quanto la urta.

Chi può dire quanto sarebbe riprensibile, di quanto mal esempio sarebbe in un prete? Dobbiamo ben guardarci contro tutto ciò che potrebbe fomentarla, perché per un uomo preso nel groviglio di tante occupazioni e preoccupazioni, possono essere molti i motivi d'impazienza, molteplici le cause di malumore per chi deve trattare con tanta gente.

Sorvegliamo, moderiamo noi stessi; cedere all'impeto della passione sarebbe tattica insana. Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram (Mat. 5, 4). La vittoria definitiva arride ai mansueti. Il nostro divino Ideale che è venuto pieno di mansuetudine, che ha proclamato la mitezza e l'umiltà del suo cuore, che ha raccomandato di non spegnere il lucignolo ancora fumante, di non spezzare la canna fessa, non ha vera azione che in un'anima armonizzata colla sua. Inchiniamoci docilissimi ai consiglio del Savio: Fili, in mansuetudine serva animavi tuam (Eccli. 10, 31). Tutto questo esigerà una fortezza non comune, la fortezza richiesta per vincere noi stessi. E quale vittoria può essere più bella?

— Siamo temperanti. Quante cose, e come belle in questa sola parola! In un'età in cui tutto manca d'equilibrio, in cui gli audaci si contano a legioni, diventa dovere imperioso che quanti hanno missione di guidare altri, posseggano moderazione, giustizia, ragiono. Senza queste basi non si pretenda edificare un solido edificio. Il soprannaturale presuppone il naturale. Operiamo divinamente, ma, perciò, cominciamo ad operare, con la grazia di Dio, umanamente in perfetta e pura bellezza. E sarà così se arriveremo a possedere la virtù che abbiamo meditata.

Noi siamo direttori; e direttore significa moderatore. E come può essere moderatore chi non è moderato? Rivolgiamo spesso questa preghiera a Dio: Da mihi sedium tuarum assistricem sapientiam (Sap. 9, 4). Egli ci ascolterà perché vuole il bene nostro e per mezzo nostro, il bene delle anime.