Pio XII – Sacerdozio e governo pastorale

  • Categoria dell'articolo:Magistero

PIO XII
SACERDOZIO E GOVERNO PASTORALE
Discorso sul Sacerdozio e il governo pastorale rivolto da PIO XII il 2 novembre 1954 agli Em.mi Cardinali e agli Ecc.mi Vescovi convenuti a Roma per i solenni riti in onore di Maria Regina.

Traduzone del testo originale latino (AAS, XLVI, 666-677) a cura di una monaca dei Carmelo S. Giuseppe di Moncalieri (Torino).


«Magnificate con me il Signore ed esaltiamo insieme il suo nome» (1), poiché mentre per un nuovo favore divino si compiono i Nostri voti, abbiamo la gioia di vedere oggi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, la vostra graditissima presenza e di contemplare la vostra imponentissima assemblea. Il motivo stesso della nuova festa liturgica della Madre di Dio, Maria, Regina del cielo e della terra, che abbiamo da poco solennemente decretata, accresce questa Nostra gioia, poiché è convenientissimo che i figli manifestino il loro gaudio al vedere accresciuta la gloria della Madre.
Che se la Beatissima Vergine Maria è Regina di tutti, a titolo speciale e in maniera più stretta Essa presiede alle vostre persone, ai vostri disegni e alle vostre iniziative poiché si è soliti invocarla con lo speciale, augusto e onorifico titolo di Regina degli Apostoli. Essa infatti che è la madre del bell'amore, del timore, della scienza e della santa speranza (2), che cosa maggiormente desidera, o meglio procura se non che il verace culto del vero Dio metta nelle anime sempre più profonde radici, la carità sia sempre più ardente, il casto timore di Dio sostenga i propositi, e la speranza sicura delle immortali promesse consoli il mesto esilio terreno? Tutto questo viene offerto agli uomini dall'industriosa attività del vostro ministero apostolico affinché conducendo nella sobrietà, nella giustizia e nella pietà una vita che finirà, raggiungano nel cielo una felicità che non conosce tramonto. Sotto la guida dunque e l'auspicio di Maria, Madre sempre Vergine e Signora nostra, intendiamo ora parlarvi di alcune cose che con ferma fiducia riteniamo utili a voi e al diligente lavoro con cui coltivate il campo di Dio.
All'inizio del giugno scorso, ai Sacri Pastori che da ogni parte della terra erano venuti in gran numero a Roma per rendere omaggio di venerazione e di pietà al Sommo Pontefice Pio X, cui Noi decretammo allora gli onori dei Santi, tenemmo un'allocuzione sul magistero che per divina istituzione e prerogativa spetta ai successori degli Apostoli sotto l'autorità del Romano Pontefice. Ora, quasi a continuare un discorso già cominciato, valendoci di questa occasione, Ci piace parlarvi degli altri due uffici, cioè del Sacerdozio e del governo che, intimamente congiunti col primo, spettano a voi e reclamano il vostro premuroso intervento.
Volgiamo di nuovo la nostra mente e il nostro pensiero al Sommo Pontefice S. Pio X.
Dalla sua biografia sappiamo che cosa fosse per lui, durante tutta la sua vita sacerdotale, l'altare e il Sacrificio Eucaristico, dal giorno in cui offri al sommo Iddio le primizie del Sacerdozio, quando, sacerdote novello, pronunziò commosso ai gradini dell'altare per la prima volta le parole «Introibo ad altare Dei»; quando divenne parroco, quando fu costituito Direttore spirituale in Seminario, quando fu consacrato Vescovo e nominato Patriarca e Cardinale e finalmente quando fu eletto Sommo Pontefice. L'altare e il Sacrificio Eucaristico furono per lui il fine e come il centro della sua pietà, rifugio e fortezza d'animo nelle fatiche e nelle angustie, fonte di luce, di vigore, di zelo assiduo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Questo Pontefice, come fu ed è un modello di Maestro, cosi fu ed è un modello di Sacerdote.
Officio proprio e principale del Sacerdote fu sempre ed è quello di sacrificare, in modo tale che, ove manchi un vero e proprio potere di sacrificare, non si può parlare di sacerdozio vero e proprio.
Questo stesso si verifica nella maniera più perfetta nel sacerdote della Nuova Legge, la cui precipua potestà e funzione propria è quella di offrire l'unico ed altissimo sacrificio del Sommo ed Eterno Sacerdote, Cristo Signore, quel sacrificio cioè che il Divin Redentore in maniera cruenta offrì sulla croce e, senza spargimento di sangue, anticipò nell'ultima cena e volle incessantemente ripetuto, comandando ai suoi Apostoli: «Fate questo in memoria di me» (3). Lo stesso Cristo dunque fece e costituì sacerdoti gli Apostoli, e non tutti i fedeli in genere, dando ad essi il potere sacrificale. Di questo eccelso ufficio e funzione sacrificale del Nuovo Testamento, il Concilio di Trento ebbe ad insegnate: «In questo divin sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e si immola incruentemente quello stesso Cristo che si offrì cruentemente una sola volta sull'altare della croce… Unica e medesima è la vittima; chi ora offre per mezzo del sacerdote, è il medesimo che si offrì allora sulla croce; diverso solamente è il modo dell'offerta» (4). Perciò è il sacerdote celebrante, e solamente lui, che, rappresentando Cristo, compie il sacrificio; non il popolo, non i chierici e nemmeno i sacerdoti che con religiosa pietà assistono il celebrante, sebbene tutti costoro possano partecipare e partecipino in qualche modo attivamente al sacrificio. «La partecipazione dei fedeli al Sacrificio Eucaristico – così ammonivamo nella Nostra Enciclica Mediator Dei" – non implica altresì un potere sacerdotale».
Sappiamo che queste cose sono a voi ben note, Venerabili Fratelli; nondimeno abbiamo ritenuto necessario ricordarle poiché sono quasi il fondamento e la premessa di quanto subito diremo. Non mancano infatti coloro che non lasciano di rivendicare un potere sacrificale nel Sacrificio della Messa a tutti coloro che vi assistono piamente. Contro costoro è necessario che, senza alcuna ambiguità, distinguiamo la verità dall'errore. Già sette anni fa, nella stessa Enciclica abbiamo riprovato l'errore di coloro i quali non esitano a dichiarare che il precetto di Cristo:«Fate questo in mia memoria» si riferisce direttamente a tutta la Chiesa dei fedeli, e che soltanto in seguito vi è subentrato il sacerdozio gerarchico. Perciò il popolo gode di un vero potere sacerdotale, mentre il sacerdote agisce per delega della comunità. Essi ritengono in conseguenza, che il Sacrificio Eucaristico è una vera e propria concelebrazione e pensano essere più conveniente che i sacerdoti presenti concelebrino piuttosto che offrano privatamente il Sacrificio.
Nella stessa occasione ricordammo in che senso si può dire che il sacerdote celebrante «fa le veci del popolo», per il fatto cioè che rappresenta Nostro Signore Gesù Cristo in quanto è capo di tutte le membra e per esse offre se stesso; perciò (il sacerdote) va all'altare come ministro di Cristo, inferiore a Lui, ma superiore al popolo. Mentre il popolo, non rappresentando in alcun modo il Divin Redentore e non essendo mediatore tra sé e Dio non può assolutamente fruire di diritti sacerdotali.

Nell'esame di questo problema non si tratta soltanto di misurare il frutto che si può ricavare dalla celebrazione o dall'assistenza al Sacrificio Eucaristico: può certamente avvenire che uno ricavi più frutto con l'assistere piamente e con devozione a una Messa, che coi celebrarla con leggerezza e negligenza. Ma si tratta di stabilire la natura dell'atto che si pone nell'assistere alla Messa e nella sua celebrazione, da cui derivano gli altri frutti del sacrificio e cioè – per non parlare ora del culto divino di adorazione e ringraziamento – il frutto propiziatorio e impetratorio in favore di coloro per cui si offre il sacrificio, anche se essi non vi assistono; così pure il frutto «per i peccati, le pene, le soddisfazioni e le altre necessità dei vivi come anche per i defunti in Cristo, non ancora del tutto purificati» (5).
Sotto questo aspetto, si deve respingere come errore l'asserzione che oggigiorno fanno e vanno spargendo, non solo laici, ma talvolta anche alcuni teologi e sacerdoti. Dicono costoro che la celebrazione di una sola Messa, a cui assistono con religiosa devozione cento sacerdoti, è la stessa cosa che cento Messe celebrate da cento sacerdoti. Ma non è davvero così. Quando si tratta della oblazione del Sacrificio Eucaristico tante sono le azioni di Cristo, Sommo Sacerdote, quanti sono i sacerdoti celebranti: ma non quanti sono i sacerdoti che ascoltano devotamente la Messa di un Vescovo o di un sacerdote che celebra. Costoro infatti, assistendo al sacrificio, non rappresentano affatto Cristo che compie il sacrificio, né agiscono in suo nome; ma devono equipararsi ai fedeli e laici che assistono alla Messa.
D'altra parte non si deve negare né mettere in dubbio che anche i fedeli hanno un certo sacerdozio; né è lecito disprezzarlo o sottovalutarlo. Il Principe degli Apostoli nella sua prima lettera, parlando ai fedeli usa queste parole: «Ma voi (siete) stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo di conquista» (6); e poco prima nella medesima lettera afferma che spetta ai fedeli «un sacerdozio santo, per offrire vittime spirituali, gradite a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (7).
Ma qualunque sia il vero e pieno senso di questo titolo onorifico e della cosa stessa, bisogna tuttavia ritenere fermamente, che questo comune sacerdozio di tutti i fedeli, per quanto alto ed arcano, differisce non solo di grado, ma anche essenzialmente dal vero e proprio sacerdozio, che consiste nel potere di operare il sacrificio dello stesso Cristo, impersonando appunto Cristo Sommo Sacerdote.
Con piacere abbiamo notato che in molte Diocesi sono sorti speciali Istituti di Liturgia, si sono costituite associazioni liturgiche, si sono nominati direttori del movimento liturgico, si sono tenuti Congressi Liturgici diocesani e internazionali, e si sono svolti o si preparano Congressi internazionali. Con molta soddisfazione abbiamo sentito che in questa o quella diocesi gli stessi Vescovi erano presenti o presiedevano a tali congressi. Queste assemblee talora seguono una loro propria regola, cioè, che uno solo celebra la Messa, mentre gli altri (o tutti o la maggioranza) assistono a quell'unica Messa e durante quella ricevono la sacra Comunione dalle mani del celebrante. Questa pratica, se si segue per una causa giusta e ragionevole, e il Vescovo, ad evitare la meraviglia dei fedeli non ha determinato nulla in contrario, non è da riprovare, purché sotto questo modo di procedere non si nasconda l'errore da Noi sopra ricordato. Quanto poi ai programmi di tali Congressi, si sono discussi argomenti circa la storia, la teoria o la pratica; si trassero delle conclusioni e si formularono dei voti, che parvero necessari o convenienti ad un maggior progresso, da sottomettersi tuttavia al giudizio della legittima autorità ecclesiastica. Questo movimento liturgico non si limitò alla celebrazione dei Congressi; ma nello stesso tempo le applicazioni pratiche andavano di continuo aumentando e crescendo, sicché i fedeli stessi si sentono spinti ad una sempre più frequente, numerosa ed attiva partecipazione ed unione col sacerdote celebrante.
Tuttavia, Venerabili Fratelli, pur favorendo – e giustamente – la pratica e lo sviluppo della sacra Liturgia, non permettete però che i cultori di questa disciplina nelle vostre Diocesi si sottraggano alla vostra direzione e vigilanza e che abbiano a menomare e alterare arbitrariamente la sacra Liturgia in contrasto con le esplicite norme della Chiesa: «Alla sola Sede Apostolica, spetta l'ordinamento della Liturgia e l'approvazione dei libri liturgici» (8), e specialmente circa la celebrazione della Messa: «Riprovata ogni altra consuetudine contraria, il sacerdote celebrante osservi accuratamente e con devozione le rubriche dei propri libri rituali, e stia attento a non aggiungere di proprio arbitrio altre cerimonie e preghiere» (9). E neppure voi a tali iniziative e impulsi, audaci più che prudenti, vogliate concedere la vostra approvazione e permesso.

«Diventati modelli del gregge» (10): queste parole del Beato Pietro riguardano soprattutto il Vescovo, in quanto ha ed esercita l'ufficio di Pastore. Caratteristica del pontificato di Pio X è stata appunto la nota di Pastore. Appena egli fu asceso al fastigio della dignità apostolica, tutti si accorsero che era stato elevato alla cattedra del Principe degli Apostoli un sacerdote, che era cresciuto in cura d'anime, che fin dall'inizio del suo sacerdozio era stato ed aveva continuato ad essere un pastore di anime finché fu designato a pascere l'intero gregge di Cristo. La norma imprescindibile seguita nell'azione, il programma di vita che si era fissato fu la salvezza delle anime. Se desiderò «restaurare tutte le cose in Cristo» ciò fu solo per la salvezza delle anime; a questo scopo, a questo suo ufficio, in certo senso, subordinò tutto il resto. In mezzo al suo gregge fu il buon pastore, premuroso per le sue necessità, preoccupato per i pericoli che lo minacciavano; tutto intento a dirigere e guidare il gregge di Cristo per la via di Cristo.
Ma Noi, mentre ora rivolgiamo la parola a voi, Venerabili Fratelli, pastori dei vostri greggi, non abbiamo intenzione di presentarvi qui di nuovo l'eccelsa immagine e la figura perfetta di questo santo Pontefice e Pastore. Vorremmo piuttosto ricordare – come già abbiamo fatto circa il magistero dei Vescovi e il sacerdozio – alcuni punti che ai nostri giorni soprattutto esigono l'attenzione, la parola e l'opera del sacro pastore.
Anzitutto oggi si fanno notare correnti di pensiero e tendenze che tentano di impedire e limitate la potestà dei Vescovi – non escluso lo stesso Romano Pontefice – precisamente in quanto sono Pastori del gregge loro affidato. Ne coartano l'autorità, la cura e vigilanza entro determinati limiti che riguardano le cose strettamente religiose, la predicazione delle verità della fede, la direzione delle pratiche di pietà, l'amministrazione dei sacramenti e l'esercizio delle funzioni liturgiche. Vogliono allontanare la Chiesa da tutte le iniziative ed affari che toccano, come essi dicono, la «realtà della vita», con il pretesto che queste cose non sono di loro competenza. Questo modo di pensare viene espresso concisamente talora nei pubblici discorsi di alcuni laici cattolici, anche elevati a posti di importanza, quando dicono: «Volentieri noi, i Vescovi e i sacerdoti li vediamo, li ascoltiamo, li avviciniamo nelle chiese, nell'ambito delle loro giurisdizioni; ma sulle piazze e negli edifici pubblici in cui si trattano e si decidono le questioni di questa vita terrena, non li vogliamo vedere, né vogliamo ascoltare la loro voce. In questi posti infatti, siamo noi laici, non il clero, di qualsiasi dignità o grado, i legittimi giudici».
In opposizione a questi errori, si deve ritenere apertamente e fermamente, che il potere della Chiesa in nessuna materia è limitato, come si suol dire, «alle cose strettamente religiose»; ma che tutta la materia della legge naturale, la sua esposizione, interpretazione e applicazione, qualora si consideri il loro aspetto morale, è di competenza della Chiesa. Infatti l'osservanza della legge naturale, per disposizione divina, riguarda la via per la quale l'uomo deve tendere al suo fine soprannaturale. Orbene. su questa via, quanto al fine soprannaturale, è la Chiesa guida e custode degli uomini. Già gli Apostoli e poi sempre lungo i secoli fin dai primi tempi, la Chiesa ha sempre seguito e segue anche oggi questa norma, e non come una guida e consigliere privato, ma per mandato e volontà del Signore. Perciò quando si tratta di prescrizioni o decisioni, che i legittimi Pastori (e cioè il Sommo Pontefice per la Chiesa universale e i Vescovi per i fedeli commessi alle loro cure) emanano in materia di legge naturale, i fedeli non devono richiamarsi all'effato – solito ad usarsi circa pareri privati – «tanto vale l'autorità, quanto valgono gli argomenti».
Quindi perdura l'obbligo di obbedire, anche se a qualcuno una prescrizione ecclesiastica non sembra provata dagli argomenti apportati. Questo fu il pensiero, queste sono le parole di S. Pio X nella sua Enciclica
«Singulari quadam» del 24 settembre 1912: «Il cristiano qualunque cosa faccia, anche nell'ordine naturale, non deve trascurare i beni soprannaturali: anzi come ci impone la sapienza cristiana, deve indirizzare tutto verso il sommo bene, come ad ultimo fine: tutte le sue azioni poi sottostanno al giudizio e alla giurisdizione della Chiesa, in quanto sono buone o cattive sotto l'aspetto morale, cioè in quanto sono conformi al diritto naturale e divino o ne sono difformi». E subito applica questa regola generale al campo sociale: «Il problema sociale e le questioni che ad esso si ricollegano… non sono di natura puramente economica, e quindi tali da potersi risolvere prescindendo dall'autorità della Chiesa. Al contrario la questione sociale è principalmente morale e religiosa e per questo deve essere risolta soprattutto in base alla legge morale e al giudizio della religione».
Vi sono in sociologia, non una, ma molte e gravi questioni, sia puramente sociali, sia Politico-sociali, che toccano l'ordine etico, le coscienze, la salvezza delle anime. Non si può assolutamente dire che tali questioni si trovino sottratte all'autorità e alle cure della Chiesa. Anzi, anche fuori dell'ordine sociale vi sono questioni, non strettamente religiose o di politica, sia nazionale che internazionale, le quali toccano l'ordine etico, premono sulle coscienze, possono esporre e difatti spessissimo espongono, a non leggero pericolo il conseguimento dell'ultimo fine. Così il problema del fine e dei limiti del potere civile; le relazioni dei singoli uomini e la società; i cosiddetti «Stati totalitari» qualunque sia la loro origine e derivazione; la «totale laicizzazione dello Stato» e della vita pubblica; l'aperta laicizzazione della scuola; la natura etica della guerra, la liceità o illiceità delle guerra moderna: la cooperazione ad essa o il rifiuto da parte di un uomo di timorata coscienza; i vincoli e le relazioni etiche tra le Nazioni.
Ora andrebbe contro la verità, anzi contro la stessa retta ragione, chi asserisse che questi punti accennati, e tanti altri del medesimo genere, trascendono l'ordine etico, e perciò oltrepassano, o almeno possono oltrepassare la competenza dell'Autorità stabilita da Dio, per la cura dell'ordine giuridico, la guida e la direzione delle coscienze e delle azioni degli uomini per il retto sentiero al loro ultimo fine.
E tutto questo non in modo nascosto soltanto, tra le pareti del tempio e delle sagrestie, ma anche e molto più parlando all'aperto; «sopra i tetti» come disse Nostro Signore, sullo stesso campo di battaglia, in mezzo all'infuriare della lotta tra la verità e l'errore, tra la virtù e il vizio, tra il mondo e il regno di Dio, tra il principe di questo mondo e Cristo Salvatore del mondo.
Ci rimane da aggiungere ancora alcune parole intorno alla disciplina ecclesiastica. Chierici e laici devono sapere che tanto la Chiesa quanto gli Ordinari del luogo nel proprio territorio entro i limiti del diritto comune, sono autorizzati a imporre ed esigere la disciplina ecclesiastica, a determinare cioè il modo esterno di agire e di comportarsi in ciò che riguarda l'ordine esteriore e non trae origine né dalla natura delle cose né immediatamente da istituzioni divine.
Non è lecito al clero o al laicato sottrarsi a questa disciplina: ma tutti devono usare diligenza affinché, con la perfetta osservanza della disciplina ecclesiastica, l'azione del Pastore divenga più facile e più efficace, l'unione tra il gregge e il Pastore si consolidi; tra le file stesse del gregge regni pacifico accordo e collaborazione, con vicendevole buon esempio ed aiuto.
Purtroppo quanto abbiamo detto del diritto dei Vescovi, come pastori del gregge loro affidato, per tutto quanto riguarda sia la religione, come la morale o la disciplina ecclesiastica, va soggetto ad una certa critica, spesso velata e sorda, e non ottiene quel doveroso e fermo assenso degli animi, anche perché diversi spiriti moderni più orgogliosi, di cui si hanno indizi dove più dove meno, provocano un pericoloso turbamento. La coscienza di aver raggiunta la maggiore età, che di giorno in giorno va più diffondendosi, fa sì che gli animi siano sempre maggiormente agitati da non sappiamo quale febbre. Non pochi uomini e donne del nostro tempo reputano la guida e la vigilanza della Chiesa una cosa indegna del modo di trattare un'età adulta; non solo lo vanno ripetendo, ma ne sono intimamente convinti. Non vogliono essere «sotto tutori e amministratori» a guisa di minorenni; vogliono essere tenuti e trattati come adulti già "sui iuris" e che sanno da sé stabilire quello che in qualsiasi circostanza debbono fare ed omettere. Non esitano a ripetere: proponga pure la Chiesa i dogmi della sua dottrina, promulghi pure le leggi che regolano la nostra attività. Ma poi quando si tratta di applicare tutto questo alla vita dei singoli e di metterlo in pratica, essa se ne stia fuori senza intromettervisi; lasci che ogni fedele si guidi secondo il giudizio della propria coscienza. E aggiungono che questo è tanto più necessario, in quanto sia la Chiesa che i suoi ministri per lo più ignorano la condizione esatta e precisa delle cose; non hanno, cioè, una visione concreta e sintetica delle circostanze sia interne che esterne all'uomo, nelle quali ciascuno si trova e nelle quali ciascuno deve decidere e pensare a sé. Infatti, tutti costoro non vogliono avere alcun interprete o intermediario, di qualsiasi dignità o nome, tra se stessi e Dio, nelle intime e profonde deliberazioni della loro volontà.
Abbiamo già parlato di queste biasimevoli opinioni due anni fa nelle allocuzioni del 23 marzo e del 18 aprile 1952, e ne abbiamo esaminati gli argomenti. Quanto al peso e valore che si attribuisce ad una raggiunta «maggiore età personale », si asserisce, a ragione, essere giusto e naturale che gli adulti non siano trattati come bambini. S. Paolo Apostolo asserisce di sé: «Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma fatto uomo, ho lasciato i costumi del bambino» (11).
Non esiste certo arte educativa che segua altro sistema o via, né esiste vero Pastore di anime che miri ad altro se non a far crescere i fedeli affidati alle sue cure «fino a uomo perfetto, alla misura di età della pienezza di Cristo» (12). Ma è cosa ben diversa essere adulti, ed avere abbandonati i costumi di bambino, ed altro è essere adulti e perciò non sottostare alla guida e al governo della legittima autorità. Il governatore infatti non è una specie di tutela di minorenni, ma è la guida efficace di adulti verso lo scopo della società civile. Siccome per ora, parliamo a voi, Venerabili Fratelli, e non ai fedeli; quando cominciano a manifestarsi e a crescere in mezzo al vostro gregge tali germi e indizi, richiamate alla mente dei fedeli questi punti:

1) Dio ha stabilito nella Chiesa Pastori di anime non per imporre un peso sulle spalle del gregge, ma per guidare e difendere il gregge.

2) Con la guida e la vigilanza dei pastori viene assicurata la vera libertà dei fedeli; vengono salvaguardati dalla schiavitù di errori e di vizi, sono difesi dalle sollecitudini, provenienti dai cattivi esempi e dalla convivenza forzata con uomini perversi.

3) Perciò i fedeli agiscono contro la prudenza e la carità che devono avere verso se stessi, se rifiutano, per dir così, questa mano di Dio, loro protesa, questo aiuto sicurissimo che loro si offre. Se poi incontrerete anche tra il clero e tra i sacerdoti certuni imbevuti di queste idee o teorie, presentate loro gli argomenti gravissimi del Nostro Predecessore, Benedetto XV, che così si esprimeva: «C'è un punto che non può essere passato sotto silenzio, vogliamo, cioè, ammonire come figli a Noi sommamente diletti tutti i sacerdoti, quanto sia necessario per la salvezza loro propria e per il frutto del loro sacro ministero, che essi siano quanto mai uniti ognuno con il proprio Vescovo, e rispettosissimi. Purtroppo, come abbiamo più sopra deplorato, non tutti i ministri dell'altare sono immuni dall'alterigia e caparbietà dei nostri tempi; e non è raro che Pastori della Chiesa trovino dispiacere o ostilità proprio là donde avrebbero dovuto aspettarsi aiuto e consolazione» (13).
Abbiamo finora trattato di qualche punto della cura pastorale e delle persone verso cui il ministero pastorale si dirige; non è giusto che finiamo senza rivolgere almeno qualche Nostro pensiero agli stessi Pastori. A Noi ed a Voi Pastori, si devono applicare quelle santissime parole dell'Eterno Pastore: «Io sono il buon Pastore, io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano molto abbondantemente » (14). A Pietro il Signore disse: «Se mi ami, pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle» (15). A questi pastori buoni, Cristo oppone il mercenario, che cerca sé e i propri vantaggi e non è pronto a dare la vita per il gregge; oppone gli Scribi e i Farisei, che avidi di regno e di dominio e desiderosi della propria gloria, occupavano la cattedra di Mosè, legavano pesi gravi e insopportabili e li caricavano sulle spalle degli uomini. Cristo invece, disse del suo giogo: «Prendete sopra di voi il mio giogo! il mio giogo infatti è soave e il mio peso è leggero» (16).
All'efficacia e al frutto del ministero pastorale contribuiscono molto i frequenti e mutui contatti tra i Vescovi. Così uno è di aiuto all'altro con l'esperienza e la pratica degli affari; si ottiene una maggiore uniformità di governo, evitandosi così la meraviglia dei fedeli, che non possono rendersi conto come mai in una diocesi si faccia in un modo, e in un'altra, forse vicinissima alla prima, si faccia diversamente e talora anzi in modo del tutto contrario. Sono utilissime a questo scopo le Conferenze Episcopali, che ormai sono già in uso quasi in ogni luogo e da celebrarsi in forma più solenne, i Concili Provinciali e Plenari, prescritti e regolati da determinate norme nel Codice di Diritto Canonico. A questa unione e a questi vicendevoli scambi fra i Fratelli di Episcopato, deve aggiungersi l'unione e la comunicazione viva e frequente con questa Sede Apostolica. Dai primissimi tempi del cristianesimo vige quest'uso di ricorrere alla Santa Sede, non solo in cose di dottrina e di fede, ma anche per quanto riguarda il governo e la disciplina. Le fonti storiche antiche ne offrono non poche prove ed esempi. E i Romani Pontefici, quando erano interpellati, non rispondevano come teologi privati, ma in forza della loro autorità, con la consapevolezza del potere ricevuto da Cristo Signore per reggere tutto il gregge e qualsiasi sua parte. Il medesimo si deduce dai fatti e dai casi in cui i Romani Pontefici, senza esserne interpellati, intervennero a decidere questioni che erano sorte, o avocarono a sé la soluzione di dubbi. Questa unione e debita comunicazione con la Santa Sede non nasce da una certa ambizione di tutto concentrate e unificare, ma dal diritto divino e da un elemento proprio della stessa costituzione della Chiesa di Cristo. E questo non verrà a nuocere, ma anzi ad aiutare i Vescovi, cui è stato affidato il governo di parti speciali di gregge. Dal contatto con la Sede Apostolica, infatti, seguirà luce e sicurezza nei dubbi; consiglio e forza nelle difficoltà, aiuto nelle fatiche, conforto e sollievo ne le tribolazioni. D'altra parte, per mezzo d le relazioni dei Vescovi alla Santa Sede, questa verrà a conoscere meglio e più presto la condizione del gregge intero, saprà meglio e più presto quali pericoli incombono e quali rimedi si possono applicare.
Venerabili Fratelli, Cristo, il giorno antecedente alla sua passione, pregò il Padre per gli Apostoli e nello stesso tempo per tutti i successori nel loro ministero apostolico.
«Padre Santo, conserva nel tuo nome coloro che tu mi hai dato, affinché siano una cosa sola come siamo noi. Come tu hai mandato me nel mondo, così anch'io ho mandato loro nel mondo. L'amore con il quale mi hai amato sia in essi ed io in loro» (17).
Così quindi Noi, seniore con Voi, Vicario in terra dell'Eterno Pastore, a Voi, Fratelli Nostri, seniori, e Pastori dei vostri greggi, abbiamo parlato presso il sepolcro del Principe degli Apostoli e del santo Pontefice Pio X; e ora al termine del Nostro discorso rivolgiamo nuovamente il pensiero del Nostro animo riconoscente alla Messa «Si diligis», da cui abbiamo esordito. Nel Prefazio di tale Messa noi preghiamo: «O Pastore Eterno, non abbandonare il tuo gregge, ma custodiscilo, e proteggilo continuamente per intercessione dei tuoi Santi Apostoli; affinché sia governato dai medesimi Capi, Tuoi Vicari, che tu stesso hai costituito come Pastori». Nella seconda orazione dopo la Comunione si aggiunge: «Moltiplica, o Signore, te ne preghiamo, nella tua Chiesa, lo spirito di grazia che ci hai donato, affinché, per l'intercessione del Beato Pio, Sommo Pontefice, non venga a mancare né al Pastore l'obbedienza del gregge, né al gregge l'assistenza del Pastore ».
E questo voglia Iddio concedere a tutti Voi, nella misura della sua divina liberalità.

NOTE

1) Ps., 33, 4,
2) Eccli., 24, 24.
3) Luc., 22, 19.
4) Sess. XXII, cap. 2.
5) Canc. Trid., Sess. XXII, cap. 2.
6) 1 Petr., 2, 9.
7) 1 Petr., 2, S.
8) C.LC., can. 1257.
9) C.LC., can. 818.
10) 1 Petr., 5, 7.
11) 1 Cor., 13, 11.
12) Ef., 4, 13.
13) Litt. Enc. Ad Beatissimi Apostolorum Principis, 1° nov 1914.
14) Giov., 10, 11.
15) Giov., 21, 15-17.
16) Matt., 11, 29-30.
17) Giov., 17, 1 e ss.