Della santità speciale del Sacerdote di Gesù Cristo

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA

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LIBRO SECONDO. 
    Della comunicazione che nostro signor Gesù Cristo fa al suo sacerdote del suo sacerdozio, del suo stato di Ostia e delle sue disposizioni

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CAPITOLO SETTIMO. Della santità speciale del Sacerdote di Gesù Cristo

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    Da quanto abbiamo detto fin qui, si vede il nesso che esiste tra queste due idee: esser Vittima ed essere Santo. Una chiama l’altra; si sorreggano e si compenetrano a vicenda. Essere Vittima vuol dire essere santo o almeno incominciare a diventar santo, sotto pena di non poter essere gradito a Dio e di non aver relazione alcuna con GESÙ CRISTO, che è l’Ostia santa e immacolata. Essere santo, vuol dire esser Vittima; perché la Santità non ha altra sorgente che il Sacrificio di GESÙ CRISTO, e non può essere che una partecipazione alla grazia che fluisce dal suo stato di Ostia. Perciò, nella Scrittura, il termine santificare significa ugualmente, in parecchi luoghi, santificare e sacrificare (263). Quando Nostro Signore, nella Cena, dice queste belle parole: Et pro eis ego sanctifico meipsum, ut sint et ipsi sanctificati in veritate. Egli vuol dire che si sacrifica, si immola, diviene Vittima a pro degli Apostoli, affinché essi pure siano sacrificati in pari tempo che santificati nella verità (Gv 17, 19). «GESÙ si santificava dice Bossuet, si offriva, si consacrava al Signore, come dedicata e santa. Ma soggiungeva: «Mi santifico per loro» affinché, partecipando, col loro ministero, alla grazia del suo Sacerdozio, entrassero pure in pari tempo nel suo stato di Vittima, e, in tal modo, trovassero in Lui la santità necessaria onde essere suoi Ministri, santità, che non avevano da se medesimi». (264).
    Il Sacerdote è Vittima con GESÙ CRISTO. È dunque santo, o almeno chiamato e obbligato alla santità. Ma qual’è la santità che a lui si addice, nella sua qualità di Sacerdote di GESÙ CRISTO e di Ostia con GESÙ CRISTO? Per averne una prima idea, sarà utile il paragonare la santità sacerdotale con quella che debbono acquistare quelle anime privilegiate, che, nella Chiesa di Dio, per istato e per dovere, sono obbligati a tendere alla cristiana perfezione: vogliamo. dire i Religiosi.

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     La santità è la vita di GESÙ CRISTO in noi. La vita di GESÙ CRISTO è la comunicazione della grazia santificante, la quale trovasi nella Umanità di GESÙ nella sua pienezza, e della quale siamo resi partecipi mediante il santo Battesimo: perché la stessa grazia, come dice Bossuet interpretando qui sant’Agostino, la stessa grazia che ha costituito GESÙ nostro Capo, ci fa pure tutti membri di Lui» (265). La grazia santificante in noi, ecco dunque veramente la santità. Chiunque possiede questo stato soprannaturale è santo. L’Apostolo bene spesso lo riconosce nelle sue Epistole mentre chiama santi tutti i fedeli (In Epist., passim). Tuttavia, questo stato, questa vita di GESÙ CRISTO nei suoi membri, ha diversi caratteri e gradi di perfezione. Tale diversità proviene, sia da una disposizione della divina Sapienza, «la quale distribuisce a ciascuno i suoi doni come le piace» (1 Cor 12, 11), dimodochè gli uni ricevono più e gli altri mena; sia dalla ineguale buona volontà delle creature redente, delle quali le une sono più ferventi e più fedeli delle altre.

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     I Religiosi, per lo stato santo che hanno abbracciato, si trovano esternamente in una condizione più perfetta del comune dei fedeli; e debbono sostenere il loro stato esterno di perfezione con disposizioni interiori convenienti, tanto che peccano gravemente se non tendono alla perfezione interiore; quindi si può dire con tutta verità che possiedono la santità dei figli di Dio in maggior grado che tutti gli altri membri del Corpo mistico di GESÙ CRISTO.
     Perciò lo stato religioso è degno di ammirazione e di invidia. Le consolazioni che i religiosi santi dànno al Cuore di Nostro Signore, gli aiuti che procurano alla Chiesa con l’efficacia della loro preghiera, il merito delle loro immolazioni e il buon odore dei loro esempi, sono effetti veramente meravigliosi dello Spirito di Dio. Orbene, molto al disopra sta la santità che si addice ai Sacerdoti, la santità alla quale sono chiamati, che acquistano e possiedono se davvero vivono di quella grazia che han ricevuta nella loro Ordinazione e in conformità con essa. Tra questa grazia e quella del Religioso che non sia sacerdote, v’ha una differenza affatto straordinaria.      Bisogna riconoscere con tutta la Scuola, che lo stato esterno del Religioso è più perfetto dello stato esterno del Prete secolare. È fuor di dubbio che i tre voti dei consigli evangelici di Povertà, castità e Obbedienza emessi in faccia alla Chiesa, con le sante Regole che vengono stabilite per la pratica esatta di quei voti, costituiscono nella Chiesa uno stato esterno che merita ogni sorta di onore e suppone una grande perfezione interiore. Il Prete secolare non ha assunto queste obbligazioni.. È vero che egli pure ha emesso un voto solenne e perpetuo, quella promessa della castità che non è per nulla inferiore al voto solenne dei religiosi. Ma il Sacerdote secolare non fa voto né di povertà né di obbedienza, e neppure si obbliga all’osservanza di una regola particolare. Tuttavia, tanto è certo che lo stato esterno del Prete secolare è inferiore a quello del Religioso, altrettanto è incontestabile che il suo stato interiore di vita soprannaturale e di santità, deve essere, agli occhi di Dio, superiore a quello dei Religiosi. Anzi, non sappiamo se sarebbe temerario dire che lo stato interiore di santità al quale è obbligato di tendere il Prete secolare, è tanto al disopra della Grazia interiore dei Religiosi, quanto questa è naturalmente al disopra dello stato comune dei fedeli. Ci sembra che questo sia il sentimento dei Padri.

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    Sant’Agostino dice: «Un buon monaco può appena fare un buon chierico» (266). Sant’Isidoro di Pelusio è più espressivo ancora: «Tra un Sacerdote e un uomo pio qualsiasi, deve esservi tutta la differenza che v’ha tra il cielo e la terra» (267).
    E la ragione è questa: il Religioso è veramente fervente, quando tende alla perfezione cristiana, mentre il Sacerdote è obbligato ad una reale ed attuale perfezione interiore: perfezione, suscettibile, senza dubbio, di accrescimento e che perciò può, all’inizio, essere in un grado relativamente debole; ma questo grado medesimo deve già essere una sorta di perfezione superiore alla esigenza della vocazione del Religioso.

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     «Quando si dice a un prete, scriveva l’abate Tronson, che deve essere per lo meno così mortificato e fervente quanto i Religiosi, non è che si abbia il proposito di farne un monaco; ma si intende farne un Sacerdote, come lì desiderava sant’Agostino nel suo Clero, come la Chiesa li ha voluti in tutti i secoli. L’abate Olier diceva e ripeteva, che i Sacerdoti sono posti nella Chiesa perché siano modelli di santità per ogni sorta di condizioni: che debbono quindi possedere le grazie e le virtù di tutti gli stati, grazie e virtù che debbono in essi essere così compite e perfette, che tanto i Religiosi come la gente del mondo possano trovarvi la norma di tutto quanto si richiede per la loro perfezione; chè se, nel mondo, parlando dei Sacerdoti più raccolti, si dice che vivono come se fossero Religiosi, è questo un effetto della corruzione del secolo; ma, per parlare il linguaggio dei Santi, si deve dire piuttosto dei Religiosi ferventi, che vivono come se fossero Sacerdoti secolari; perché questi hanno l’obbligo essenziale di vivere santamente, e i Religiosi hanno pure il dovere strettissimo d’imitare i Preti santi, santificandosi col mettere in pratica quelle regole di perfezione che vennero da principio stabilite per il Clero» (Lettres, I juin 1677).

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     In queste parole d’un uomo così grave, così profondo nella scienza ecclesiastica ed esperto nella direzione dei Sacerdoti, si notano espressioni che forse ci sorprendono e, a prima vista, sembrano esagerate. Eppure non sono altro che l’espressione fedele di tutta la Tradizione. Sant’Agostino diceva: «Quando si tratta di elevare qualcuno alla dignità di Sacerdote nel clero, usiamo sceglierlo tra i migliori del monastero» (268). San Gelasio papa, dice pure: «Se si trova qualche monaco che, per la sua vita santa, sembri degno del Sacerdozio, il Vescovo, sulla domanda del suo Abate, lo elegga e gli conferisca l’ordinazione». Ed ecco ora l’autorità di san Tommaso: «Quelli che sono applicati ai ministeri divini, debbono essere perfetti nella virtù. Secondo san Dionigi, l’ordine monastico deve seguire gli ordini ecclesiastici, e, ad esempio di questi, innalzarsi a ciò che è divino. Perciò, a parità di circostanze, un chierico negli ordini sacri se commette qualche cosa contraria alla santità, pecca più gravemente d’un religioso laico, benché questi sia obbligato a certe osservanze regolari alle quali non è tenuto il chierico secolare» (269).
    È quindi una funesta illusione, quella persuasione di molti che bisogna lasciare la pratica della perfezione alle anime consacrate a Dio con i santi voti, come un dovere che le riguarda esclusivamente; e che, perciò, il Prete secolare può attenersi ad un dato grado di vita spirituale, allo stato di grazia fedelmente conservato, senza nessun obbligo di giungere a quella perfezione interiore che si suppone propria di una Clarissa o di una Carmelitana (270). Questo deplorevole errore può essere causa di grave danno per le anime sacerdotali.

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     Ma che dovremo dire della perfezione che si addice al Prete che ha carico di anime, se la si mette a confronto con la perfezione di un Religioso Sacerdote? Risponde san Tommaso: «Il Sacerdote in cura d’anime è obbligato ad una perfezione interiore maggiore di quella del monaco che essendo legato dai santi voti, diviene Sacerdote». A san Lorenzo Giustiniani si attribuisce questa massima: «Nemo nisi valde sanctus, absque sui detrimento, proximorum curis occupatur» (271).
     Tutto ciò è gravissimo. Da una parte, ecco il Sacerdote secolare obbligato ad una santità maggiore del Religioso; d’altra parte, maggiori per lui sono i pericoli e minori gli aiuti. Questo pensiero ha preoccupato e turbato anime di grande virtù. Eppure, sarebbe assolutamente falso dire che lo stato secolare e la vera vita sacerdotale sono incompatibili. Quanti Preti santi, in mezzo alle fatiche ed ai pericoli del ministero! Quanti che, senza attirar l’attenzione, sono l’onore della Chiesa e la consolazione del Cuore del Signore! No! non è necessario per essere un vero Sacerdote di GESÙ Vittima, entrare in qualche comunità religiosa. Ma ciò che è necessario è di essere, come il religioso fervente, uomo di preghiera e di orazione, sempre modesto, paziente, umile e mortificato; sacerdote che «non cerchi mai il proprio interesse, ma unicamente quello di GESÙ CRISTO», che «porti sempre in sé la mortificazione di GESÙ CRISTO, onde nel suo corpo si manifesti sempre la vita di GESÙ CRISTO»; in una parola, di essere un Sacerdote che, in ogni cosa, tanto nell’intimo dell’anima come nell’esterno della vita, vuole essere e dimostrarsi altrettanto Vittima con GESÙ CRISTO che Sacerdote di GESÙ CRISTO (272).

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    Nella unione abituale con GESÙ CRISTO trovasi appunto, come lo insegna il Dottor Angelico, la superiorità della nostra grazia in confronto di quella del Religioso. Per sacrum ordinem, aliquis deputatur ad dignissima ministeria, quibus ipsi Christo, servitur, in Sacramento altaris; ad quod requiritur major sanctitas interior, quam requirat religionis status. Con questa unione sublime, il Sacerdote diventa una sola e medesima Ostia con GESÙ CRISTO. Orbene, dove trovare un principio di santità che possa paragonarsi a questo? Quale unione può reggere al confronto con l’unione che il Sacerdote contrae al santo altare, con GESÙ, unico Sacerdote e unica Ostia del Padre? E quale non dovrà essere la santità interiore, o almeno il desiderio efficace di divenire veramente santo, in colui che, secondo tutta la verità di questa parola, non è che una cosa sola, sia come Sacerdote, sia come Vittima, con GESÙ che è il Santo dei Santi?…
     Dopo queste riflessioni, si comprende meglio ciò che san Gerolamo diceva ad un religioso: «Vivete nel vostro monastero, in modo tale che possiate meritare di diventar Chierico» (273). Notiamo che dice Chierico e non già Sacerdote. Che cosa avrebbe mai richiesto di un monaco che fosse chiamato ad essere ordinato Sacerdote? (274).

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NOTE
(263) JOANN., XVII, 19. – Pro eis ego sanctifico meipsum, id est, sanctam Hostiam me tibi offero et immolo, etc. – CORN. A LAP., – Cfr.: Rom., XV, 16. – Sanctificare hic est sacrificare, sive sanctam Victimam (puta gentes, fideles et sanctas, per Evangelii praedicationem) facere,   consecrare, offerre Deo. – CORN. A LAP.

(264) Méditations, etc. – La Cène, II partie, LVI° jour.

 (265) BOUSSET, Défense de la Tradition, etc., liv. XII, chap. XX. ­ Ea gratià fit ab initio fidei sua e homo quicumque Christianus, qua gratia Homo ille ab initio factus est Christus, etc. De Praedest. Sanct., lib. I, Cap. XV.

(266) Epist. LX, ad Aurelium.

(267) Epist., lib. II; Epist. CCV

(268) Epist. LX, ad Aurelium.

(269) II, II, q. CLXXXIV, a. 8. – In IV Sentent., Disput. XXIV, q. III.

(270) Nella storia ecclesiastica si trovano molti esempi di religiosi santi che rifiutarono di diventar Sacerdoti. S. Alfonso ne ha raccolto parecchi. Per non venir ordinato, S. Efrem si finse scemo; S. Marco si recise il pollice; S. Ammone si tagliò le orecchie e il naso, e siccome, ad onta di ciò, il popolo insisteva nel volerlo Sacerdote, minacciò di recidersi la lingua. – SELVA, cap. II.

(271) II, II, q. CLXXXIV

(272) Philipp., II, 21. – II Cor., II, 15; IV, 10.

(273) Ita age, et vive in monasteri o, ut clericus esse merearis. Epist. CXXV, ad Rusticum.

(274) Sarà bene rileggere e meditare il capo V del Libro IV dell’Imitazione