DEL DANNO CHE APPORTA AL SACERDOTE LA TEPIDEZZA

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S. Alfonso Maria de Liguori
DEL DANNO CHE APPORTA AL SACERDOTE LA TEPIDEZZA
(Selva di materie predicabili – Parte I, Cap. V)

 

Sant'Alfonso Maria de' Liguori - S.Alfonso

Ordinò il Signore a s. Giovanni nell'Apocalisse cap. 2. che scrivesse al vescovo d'Efeso queste parole: Scio opera tua et laborem et patientiam tuam; io so il bene che fai, so le tue fatiche per la mia gloria e so la tua sofferenza ne' travagli del tuo officio. Ma poi soggiunse: Sed habeo adversum te, quod charitatem tuam primam reliquisti; ma debbo all'incontro riprenderti, per esserti raffreddato dal tuo primo fervore. Ma che gran male vi era in ciò? Che gran male? Udite quel che soggiunse il Signore: Memor esto itaque unde excideris, et age poenitentiam et prima opera fac. Sin autem, venio tibi et movebo candelabrum tuum de loco suo: Ricordati, disse, donde sei caduto e fanne penitenza, e procura di ritornare al primo fervore con cui sei tenuto a vivere come mio ministro; altrimenti sarai da me riprovato come indegno del ministero che ti ho commesso. Tanta ruina dunque porta seco la tepidezza? Sì, tanta ruina; e il peggio si è che questa ruina non si conosce, e perciò non si evita né si teme dai tepidi e specialmente da' sacerdoti, la maggior parte de' quali urta in questo scoglio cieco della tepidezza, e molti perciò si perdono. Scoglio cieco; mentre in ciò consiste il gran pericolo nel quale stanno di perdersi i tepidi; perché la tepidezza non lascia vedere il gran danno ch'ella apporta ad un'anima. Molti non vogliono già affatto separarsi da Gesù Cristo; voglion seguitarlo, ma seguitarlo da lontano, come fece s. Pietro, il quale, secondo dice s. Matteo c. 26, allorché il Redentore fu catturato nell'orto, sequebatur eum a longe. Ma facilmente a coloro che fan così avverrà la disgrazia avvenuta a s. Pietro: che appena giunto poi nella casa del pontefice, al semplice rimprovero di una serva rinnegò Gesù Cristo.

Qui spernit modica, paulatim decidet [1]. Applica l'interprete questo passo appunto al tepido, e dice che il tepido prima perderà la divozione, decidet a pietate, e poi cadrà a statu gratiae in statum peccati, passando dalle colpe leggere di cui non ha fatto conto alle gravi e mortali. Dice Eusebio Emisseno che colui il quale non teme di offender Dio co' peccati veniali con difficoltà sarà libero da' peccati mortali: Difficile est ut non cadere in gravia permittatur qui minus gravia non veretur [2]. Con giusto giudizio permetterà il Signore, soggiunge s. Isidoro, che chi non fa conto delle trasgressioni minori cada poi in delitti maggiori: Iudicio autem divino in reatum nequiorem labuntur qui distringere minora sua facta contemnunt. I piccioli disordini, quando sono rari, non apportano gran danno alla sanità: ma quando son molti e spessi son causa poi di morbi mortali. Scrive s. Agostino [3]: Magna praecavisti; de minutis quid agis? Proiecisti molem, vide ne arena obruaris. Tu attendi ad evitare le. cadute gravi, ma non temi le leggere; non sei stato privato di vita da un gran sasso di qualche peccato mortale, ma sta attento, dice il santo, ché non resti oppresso da un mucchio d'arena di peccati veniali. Già s'intende che solo il peccato mortale dà morte all'anima, e che i peccati veniali per quanti sieno non possono privar l'anima della divina grazia. Ma bisogna ancora intendere quel che dice s. Gregorio, che la consuetudine di commettere molte colpe leggere, senza pigliarsene pena e senza pensiero di emendarsene, ci fa perdere a poco a poco il timore di Dio, perduto il quale è facile poi passar dalle mancanze leggere alle gravi: Ut, usu cuncta levigante, nequaquam postea committere graviora timeamus [4] Aggiunge s. Doroteo e dice che noi con disprezzare le mancanze leggere periculum est ne in perfectam insensibilitatem deveniamus [5]. Chi non fa conto delle piccole cadute sta in pericolo di cadere in una insensibilità universale, sicché poi non gli facciano orrore neppure le cadute mortali.

S. Teresa, siccome attesta la Ruota romana, non cadde mai in colpa grave; ma con tutto ciò il Signore le fe' vedere il luogo apparecchiatole nell'inferno, non già perché se l'avesse meritato, ma perché, se non si fosse la santa sollevata da quello stato di tepidezza nel quale allora viveva, avrebbe finalmente perduta la grazia di Dio e si sarebbe dannata. Avverte perciò l'apostolo: Nolite locum dare diabolo [6]. Il demonio si contenta che noi cominciamo ad aprirgli la porta col non far conto delle colpe leggere, perché sarà pensiero suo poi di farsela aprir tutta colle colpe gravi. Scrive Cassiano: Lapsus quispiam nequaquam subita ruina corruisse credendus est. E vuol dire che quando noi udiamo la caduta di qualche persona spirituale, non crediamo che il demonio così subito l'abbia fatta precipitare; ma prima l'ha fatta cadere nello stato della tepidezza e poi nel precipizio della divina disgrazia. Quindi attesta s. Gio. Grisostomo di aver egli stesso conosciuti molti ornati di tutte le virtù ma poi, caduti nella tepidezza, essersi precipitati in un abisso di vizj: Novimus multos, omnes virtutis numeros habuisse, tamen, negligentia lapsos, ad vitiorum barathrum devenisse. Si narra nelle croniche teresiane che la v. suor Anna dell'Incarnazione vide una volta un'anima dannata, ch'ella prima avea tenuta per santa, con molti animaletti sul volto, ch'erano stati i molti difetti da lei commessi in vita e disprezzati, e di questi altri le diceano: Per noi cominciasti; altri: Per noi continuasti; altri: Per noi ti perdesti.

Scio opera tua, fe' sentire Iddio ad un altro vescovo, cioè al vescovo di Sardo, quia neque frigidus es, neque calidus [7]. Ecco lo stato d'un tepido, né freddo né caldo. Tepidus est qui non audet Deum mortaliter sciens et volens offendere, sed perfectioris vitae studium negligit; unde facile concupiscentiis se committit [8]. Un sacerdote tepido non è già manifestamente freddo, perché non commette ad occhi aperti peccati mortali; ma lasciando di attendere alla perfezione, secondo la quale egli è tenuto a vivere per obbligo del suo stato, non fa conto de' peccati veniali, ne commette molti alla giornata senza farsene scrupolo, bugie, intemperanze nel mangiare e nel bere, imprecazioni, officio e messa strapazzati, mormorazioni, mettendo bocca a tutti, facezie poco modeste; vive dissipato tra negozj e spassi secolareschi; nutrisce desiderj ed attacchi pericolosi; pieno di vanagloria, di rispetti umani, di rancori e di stima propria, non può sopportare una cosa contraria, non una parola di disprezzo; è senza orazione, senza divozione. Dice il p. Alvarez che i difetti e le mancanze del tepido sunt velut irremissae aegrotatiunculae, quae vitam quidem non dissolvunt, sed ita corpus extenuant ut, accedente aliquo gravi morbo, corpus vires non habeat resistendi [9]. Il tepido è come un infermo che è travagliato da diversi piccoli morbi i quali, benché non l'uccidano, nulladimeno perché non mai ristanno lo rendono talmente debole, che venendo poi assalito da qualche grave infermità, cioè da qualche forte tentazione, non ha poi forza di resistere e cade, ma cade con maggior ruina. E perciò seguendo il Signore a parlare col tepido gli dice: Utinam frigidus esses aut calidus! sed quia tepidus es et nec frigidus nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo [10]. Consideri queste terribili parole chi si trova miseramente a giacere nello stato della tepidezza e tremi.

Utinam frigidus esses! Meglio, dice Dio, se fossi freddo, cioè privo della mia grazia! perché cosi vi sarebbe più speranza per te di uscire da un tal miserabile stato; in cui all'incontro restando, ti ritroverai in maggior pericolo di precipitare ne' vizj gravi, senza speranza di risorgere. Licet frigidus sit peior tepido, tamen peior est status tepidi, quia est in maiori periculo ruendi, sine spe resurgendi [11]. Dice s. Bernardo essere più facile il convertire un laico vizioso che un ecclesiastico tepido. Aggiunge il Pereida ch'è più facile ridurre un infedele che un tepido: Facilius enim est quemlibet paganum ad fidem Christi adducere quam talem aliquem a suo torpore ad spiritus fervorem revocare. Ed in fatti scrisse Cassiano avere veduti molti peccatori darsi a Dio con fervore, ma niun tepido: Frequenter vidimus de frigidis ad specialem pervenisse fervorem, de tepidis omnino non vidimus. S. Gregorio dà speranza d'un peccatore non ancor convertito, ma dispera poi di un convertito che dopo d'essersi dato a Dio con fervore cade nella tepidezza. Ecco le sue parole: Sicut ante teporem frigus sub spe est ut aliquando veniat ad fervorem; ita tepor, quia a fervore defecit, in desperatione est. Qui enim adhuc in peccatis est conversionis fiduciam non amittit; qui autem post conversionem tepescit, etiam spem, quae esse potuit de peccatore, subtraxit [12].

In somma la tepidezza è un male quasi incurabile e disperato. E la ragione è questa: acciocché taluno possa evitare qualche pericolo, bisogna che lo conosca: ora il tepido, quando è caduto in quel misero stato di oscurità, non giunge neppure a conoscere il pericolo in cui si trova. La tepidezza è come una febbre etica la quale appena si conosce. I difetti abituati in un tepido scappano dalla sua vista. Maior culpa, scrive s. Gregorio, quo citius agnoscitur, celerius emendatur; minor vero diu, quia quasi nulla creditur et in usu retinetur. Unde fit plerumque ut mens assueta malis levibus nec graviora perhorrescat et in maioribus contemnat [13]. Le colpe gravi, perché meglio si fan vedere, più presto si correggono; ma le leggere stimandosi per niente si seguitano a commettere, e così l'uomo, assuefacendosi a disprezzare i mali minori, facilmente disprezzerà poi anche i maggiori. Inoltre il peccato mortale dà sempre un certo orrore anche al peccatore abituato; ma al tepido quelle sue imperfezioni, quegli affetti disordinati, dissipazioni, attacchi al piacere, alla stima propria non fanno orrore. Quelle piccole colpe sono però più pericolose per esso, mentre lo dispongono alla ruina senza neppure avvedersene: Magna peccata eo minus periculosa sunt quo aspectum satis tetrum ostendunt; et minima periculosiora videntur, quia latenter ad ruinam disponunt [14].

Quindi s. Gio. Grisostomo scrisse quella celebre sentenza, che in certo modo dobbiamo più attendere a sfuggire le colpe leggere che le gravi: Non tanto studio magna peccata esse vitanda quam parva; illa enim natura adversatur, haec autem, quia parva sunt, desides reddunt. Dum contemnuntur, non potest ad eam expulsionem animus generose insurgere; unde cito ex parvis maxima fiunt. La ragione dunque del santo si è perché le colpe gravi si abborriscono dalla stessa natura, ma le leggere si disprezzano e perciò presto poi diventano gravi. E il maggior male si è che i mali leggeri e disprezzati rendono la persona trascurata circa gl'interessi dell'anima, e perciò fanno che, siccome ella si è abituata a non far conto de' mali minori, cosi non faccia poi conto de' mali maggiori. Pertanto ci avverte il Signore ne' sacri cantici c. 2.: Capite nobis vulpes parvulas quae demoliuntur vineas: nam vinea nostra floruit. Si noti: vulpes; non dice prendetemi i leoni, le tigri, ma le volpi: le volpi rovinano le vigne con farvi molte cave e così fan seccar le radici, cioè la divozione e i buoni desiderj che son le radici della vita spirituale. Dice inoltre parvulas; prendetemi le volpi piccole, e perché non le grandi? perché delle piccole meno si teme, ma queste spesso fan più danno che le grandi; poiché, come dice il p. Alvarez, le colpe leggere di cui non si fa conto impediscono l'influenza delle grazie divine; e così l'anima rimane sterile e finalmente si perde: Culpae leves et imperfectiones vulpes parvulae sunt, in quibus nihil nimis noxium aspicimus; sed hae vineam, id est animam demoliuntur, quia eam sterilem faciunt, dum pluviam coelestis auxilii impediunt. Soggiunge lo Spirito santo: Nam vinea nostra floruit. Che fanno le colpe veniali moltiplicate e non abborrite? Si mangiano i fiori, cioè distruggono i buoni desiderj di avanzarsi nello spirito; e mancando questi desiderj, la persona andrà sempre più indietro, finché si troverà caduta in qualche precipizio, onde poi le sarà difficile il liberarsene.

Sed quia tepidus es, incipiam te evomere. Terminiamo di spiegare il testo addotto dell'apocalisse. Una bevanda ch'è fredda o calda facilmente si prende; ma con molta pena poi si prende una bevanda ch'è tepida, perché la tepida muove a vomito. E ciò appunto è quel che minaccia il Signore al tepido: Incipiam te evomere ex ore meo [15]. Commenta Menochio: Porro tepidus incipit evomi, cum, permanens in tempore suo, Deo nauseam movere incipit, donec tandem omnino in morte sua evomatur et a Christo in aeternum separetur. In questo pericolo sta il tepido, d'esser vomitato da Dio, cioè d'essere abbandonato senza speranza di rimedio. E ciò significa il vomito, mentre ciò che si vomita si ha orrore a più ripigliarlo: Vomitus significat, Deum execrari tepidos, sicut execramur id quod os evomit [16]. Come Dio comincia a vomitare un sacerdote tepido? Si ritira dal dargli più quelle chiamate amorose (ché questo propriamente viene a dire l'esser vomitato dalla bocca di Dio), quelle consolazioni di spirito, quei buoni desiderj. In somma sarà privato dell'unzione spirituale: andrà il misero all'orazione, ma la farà con gran tedio, dissipazione e svogliatezza; onde a poco a poco comincerà a lasciarla, e così lascerà ancora di raccomandarsi a Dio colle preghiere, e non pregando diventerà sempre più povero e andrà di male in peggio. Dirà la messa, l'officio, ma ne riporterà più demerito che frutto; tutto farà con pena ed a forza o senza divozione: Calcabis olivam, et non ungeris oleo [17]. Sarai, dice Dio, tutto unto di olio e resterai senza unzione. Messa, officio, prediche, udir confessioni, assistere a' moribondi, assistere a' funerali, tutti esercizj che dovrebbero farti crescere nel fervore; ma con tutti questi resterai arido, senza pace, dissipato, agitato da mille tentazioni. Incipiam te evomere; ecco come Dio comincerà a vomitarti.

Dice quel sacerdote: Basta che io non commetta peccati mortali e mi salvi. Basta che ti salvi? No, risponde s. Agostino; tu che sei sacerdote, obbligato a camminar per la via stretta della perfezione, andando per la via larga della tepidezza neppure ti salverai: Ubi dixisti: sufficit, ibi periisti. Dice s. Gregorio che chi è chiamato a salvarsi da santo e vuol salvarsi da imperfetto, non si salverà. E ciò appunto fe' intendere il Signore un giorno alla b. Angela da Foligno, dicendole: «Quei che sono da me illuminati a camminare per la perfezione, ed ingrossando l'anima voglion camminare per la via ordinaria, saranno da me abbandonati». È certo, come abbiam veduto di sopra al capo terzo, che il sacerdote è tenuto a farsi santo, così per la dignità che tiene di familiare di Dio e di suo ministro, come per l'officio che ha di offerirgli il sacrificio della messa e d'essere il mediatore de' popoli appresso la sua divina maestà ed anche di santificare le anime per mezzo de' sacramenti; mentre a tal fine, acciocché cammini per la perfezione, Iddio lo colma di grazie e d'aiuti speciali. Ond'è che quando poi vuol egli esercitare negligentemente il suo ministero tra mille difetti e mancanze senza neppure abborrirle, Iddio allora lo maledice: Maledictus homo qui facit opus Dei negligenter [18]. Questa maledizione significa l'abbandono di Dio. Dice s. Agostino: Deus negligentes deserere consuevit. Il Signore è solito, attesta il santo, di abbandonar quelle anime che più son favorite colle sue grazie e che poi trascurano di viver secondo la perfezione a cui son chiamate. Dio vuol esser servito, scrive un autore, da' suoi ministri con quel fervore con cui lo servono i serafini: altrimenti sottrarrà loro le grazie e permetterà che dormano nella lor tepidezza e di là cadano nel precipizio prima del peccato e poi nell'inferno: Deus vult a seraphinis ministrari; tepido gratiam suam subtrahit sinitque eum dormire itaque ruere in barathrum. Il sacerdote tepido, oppresso da tante colpe veniali e da tanti affetti disordinati, resta quasi posto in uno stato d'insensibilità; onde poca specie più gli fanno le grazie ricevute e gli obblighi del sacerdozio: e perciò il Signore giustamente lo priverà degli aiuti abbondanti che gli sarebbero moralmente necessarj per adempire le obbligazioni del suo stato; e così andrà da male in peggio, e siccome crescono i difetti crescerà la sua cecità. Forse è obbligato Dio a fare abbondar le sue grazie in colui che va scarso con esso? No, dice l'apostolo; chi poco semina, poco raccoglierà: Qui parce seminat, parce et metet [19].

Il Signore s'è protestato che a coloro che gli son grati e conservano le sue grazie accrescerà i favori, ma agl'ingrati toglierà anche le grazie prima loro donate: Omni habenti dabitur et abundabit: ei autem qui non habet, et quod videtur habere auferetur ab eo [20]. Inoltre dice s. Matteo che quando il padrone non riceve frutto dalla sua vigna, la toglie a' coloni a cui l'avea data e la consegna ad altri con castigare i primi: Malos male perdet, et vineam suam locabit aliis agricolis, qui reddant ei fructum temporibus suis [21]. E poi soggiunge: Ideo dico vobis quia auferetur a vobis regnum Dei et dabitur genti facienti fructus eius [22]. Viene a dire che Dio toglierà dal mondo quel sacerdote al quale ha data la cura del suo regno, cioè di procurar la sua gloria e la darà ad altri che gli saranno grati e fedeli.

Quindi poi nasce che molti sacerdoti con tanti sacrificj, tante comunioni e tante orazioni che dicono nell'officio e nella messa, poco o niun frutto ne cavano: Seminastis multum, et intulistis parumÖ; et qui mercedes congregavit misit eas in sacculum pertusum [23]. Tale è il sacerdote tepido: tutti gli esercizj suoi spirituali li ripone in un sacco bucato, sicché non gliene resta alcun merito; anzi facendoli con tanti difetti si rende sempre più degno di castighi. No che non è lontano dal perdersi un sacerdote tepido. Il cuore del sacerdote, come dice Pietro Blessense, dee esser l'altare in cui arde sempre il divino amore: ma qual segno d'amore ardente verso Dio dà quel sacerdote che si contenta di evitare le sole colpe gravi, ma non pensa d'astenersi dal dispiacergli nelle leggere? Signum amoris satis tepidi velle amatum in solis rebus gravibus non offendere, et in aliis, quae non tanta severitate praecipit, eius voluntatem procaciter violare [24]. Per fare un buon sacerdote vi bisognano non grazie comuni né poche, ma particolari ed abbondanti: ma come Dio vuol essere abbondante con chi si è posto a servirlo e poi lo serve così malamente? S. Ignazio di Loiola un giorno chiamò a sé un fratello laico della compagnia il quale faceva una vita molto tepida e gli disse: Dimmi, fratello mio, che sei venuto a fare nella religione? Rispose quegli: A servire Dio. E così lo servi? Se mi dicessi che sei venuto a servire un cardinale o un qualche principe di terra, più ti compatirei; ma dici che sei venuto a servire Dio, e così malamente lo servi? Ogni sacerdote entra nella corte, non già bassa, ma alta, cioè de' familiari di Dio i quali continuamente han da trattare con confidenza e delle cose di maggiore importanza per la sua gloria. Ond'è che un sacerdote tepido più disonora Dio di quel che l'onori; mentre colla sua vita così negligente e difettosa dà ad intendere che Iddio non merita d'esser servito ed amato con maggior attenzione: dichiara che nel dar gusto a Dio non si ritrova quella felicità che basti a renderei pienamente contenti: dichiara che la sua maestà non è degna di tanto amore che ci obblighi a preferir la sua gloria ad ogni nostra soddisfazione.

Attenti, sacerdoti miei; tremiamo che tutte le nostre grandezze ed onori con cui ci ha sollevati Dio tra tutti gli uomini non abbiano un giorno a terminare colla nostra dannazione eterna. Dice s. Bernardo che la sollecitudine che hanno i demonj per la nostra rovina dee farci solleciti a procurar la nostra salute: Hostium malitia, qui tam solliciti sunt in nostram percussionem, nos quoque sollicitos faciat, ut nos in timore et tremore ipsorum salutem operemur [25]. Oh come attendono i nemici per far perdere un sacerdote! Essi desiderano più la caduta d'un sacerdote che di cento secolari: sì perché la vittoria sopra d'un sacerdote è un trionfo per loro molto più grande, sì perché un sacerdote che cade ne porta molti altri seco in ruina. Ma siccome le mosche fuggono dalla pignatta che bolle e corrono a quella ch'è tepida, così i demonj non tanto si accostano a tentare i sacerdoti fervorosi, quanto i tepidi sui quali spesso ottengono l'intento di farli passare dalla tepidezza allo stato del peccato. Dice Cornelio a Lapide che il tepido, quando viene assalito da qualche grave tentazione, in magno versatur periculo, saepeque inter tot occasiones huius vitae in mortale prolabitur [26]. Sta il tepido in gran pericolo di cedere alle tentazioni, perché ha poca forza di resistere; ond'è che poi fra tante occasioni in cui si trova spesso cade in colpe gravi.

Bisogna dunque attendere ad evitare i peccati che si commettono ad occhi aperti e deliberatamente. Non può negarsi che fuori di Gesù Cristo e della divina Madre, i quali per singolar privilegio sono stati esenti da ogni macchia di peccato, tutti gli altri uomini, anche santi, non sono stati liberi almeno dai peccati veniali. Coeli non sunt mundi in conspectu eius, disse Giobbe [27]. E s. Giacomo: In multis offendimus omnes [28]. Sicché è necessario, come scrisse s. Leone, ad ogni figlio di Adamo l'imbrattarsi nel loto di questa terra: Necesse estÖ de mundano pulvere etiam corda religiosa sordescere [29]. Ma su ciò bisogna avvertire quel che dice il Savio: Septies cadet iustus et resurget [30]. Chi cade per fragilità umana, senza piena cognizione del male e senza consenso deliberato, facilmente risorge: cadet et resurget. Ma chi conosce i difetti e li commette ad occhi aperti, ed in vece di detestarli se ne compiace, come costui può risorgere? Dice s. Agostino: Etsi non sumus sine peccatis, oderimus tamen ea [31]. Se commettiamo difetti, almeno confessiamoli e odiamoli; e Dio ce li rimetterà: Si confiteamur peccata nostra, fidelis est (Deus) et iustus ut remittat [32]. Scrisse Blosio, parlando delle colpe veniali, che basta almeno confessarle in generale per averne il perdono: Sane tales culpas generaliter exposuisse satis est [33]. E in altro luogo disse che simili peccati più facilmente si cancellano con voltarsi a Dio con umiltà ed amore che trattenendosi a ponderarli con troppo timore. Scrisse similmente s. Francesco di Sales che le colpe quotidiane delle anime spirituali siccome indeliberatamente si commettono, così anche indeliberatamente si tolgono; e volle dire quello stesso che insegna s. Tommaso [34], cioè che per la remissione de' veniali sufficit actus quo aliquis detestatur peccatum explicite vel implicite, sicut cum aliquis ferventer movetur in Deum. Indi dice: Triplici ratione aliqua causant remissionem venialium. 1. Per infusionem gratiae; et hoc modo, per eucharistiam et omnia sacramenta, venialia remittuntur. 2. In quantum sunt cum aliquo motu detestationis; et hoc modo confessio generalis, tunsio pectoris et oratio dominica operantur ad remissionem. 3. In quantum sunt cum aliquo motu reverentiae in Deum et ad res divinas; et hoc modo benedictio episcopi, aspersio aquae benedictae, oratio in ecclesia dedicata et talia huiusmodi operantur ad remissionem venialium. E parlando specialmente della comunione, s. Bernardino da Siena dice: Contingere potest quod tanta devotione mens per sumptionem sacramenti absorbeatur quod ab omnibus venialibus expurgetur [35].

Diceva il ven. p. Luigi da Ponte: Io ho commesso molti difetti, ma non ho mai fatta pace co' difetti. Molti fanno pace co' loro difetti, e ciò cagionerà la loro ruina. Dice s. Bernardo: Sin tanto che alcuno detesta le sue imperfezioni, vi è speranza che si rimetta nella buona via; ma quando commette i difetti ad occhi aperti e deliberatamente, e poi non teme e non si prende pena d'averli commessi, questi a poco a poco lo faran perdere. Muscae morientes perdunt suavitatem unguenti [36] . Muscae morientes sono appunto quelle colpe che si commettono e non si detestano; mentre così restano morte nell'anima. Dum musca, dice Dionisio Cartusiano, cadit in unguentum, manendo in illo, destruit eius valorem et odorem. Spiritualiter muscae morientes sunt cogitationes vanae, affectiones illicitae, distractiones morosae, quae perdunt suavitatem unguenti, idest dulcedinem spiritualium exercitiorum.

Scrive s. Bernardo [37], che il dire: Questo è peccato leggero non è gran male; ma il commetterlo e compiacersene è un male di gran conseguenza e sarà molto castigato da Dio, secondo quel che sta scritto in s. Luca: Qui cognovit voluntatem domini suiÖ et non fecitÖ, vapulabit multis: qui autem non cognovit, et fecit digna plagis vapulabit paucis [38]. È vero che anche le anime spirituali non sono esenti dalle colpe, leggere; ma queste, dice il p. Alvarez, sempre più vanno diminuendole di numero e di peso, e poi le distruggono con atti d'amore verso Dio. Chi fa così, anche si farà santo; né i suoi difetti lo impediranno di tendere alla perfezione: che per tanto ci fa animo Blosio a non disaminarci in queste piccole cadute poiché abbiamo più modi da sollevarcene: Quemadmodum singulis diebus in multis offendimus, ita quotidianas expiationes habemus. Ma chi tiene attacco a qualche cosa di terra e vi cade e vi torna a cadere volontariamente, senza volontà di liberarsene, come mai può avanzarsi nella via di Dio? L'uccello quando è libero da' lacci subito vola; ma quando è legato da ogni piccol filo resta a giacere sulla terra. Ogni piccol filo di attacco alla terra, dicea s. Giovanni della Croce, impedisce all'anima l'avanzarsi nello spirito.

Guardiamoci dunque di cadere in questo miserabile stato della tepidezza: poiché (secondo tutto ciò che di sopra si è detto) per sollevare un sacerdote da tale stato vi bisognerebbe una grazia di Dio potentissima: ma qual ragione v'è di pensare che il Signore donerà questa grazia ad un sacerdote che lo muove a vomito? Dunque, dirà taluno che forse già trovasi caduto in tale misero stato, dunque non v'è speranza per me? Una speranza vi è: la misericordia e la potenza di Dio. Quae impossibilia sunt apud homines, possibilia sunt apud Deum [39]. È impossibile al tepido il risorgere, ma il farlo risorgere non è impossibile a Dio. Ma almeno vi bisognerà il nostro desiderio? Chi non desidera neppur di risorgere, come può sperare il divino aiuto? E chi non avesse neppure questo desiderio almeno preghi Dio che glielo conceda. Se preghiamo e perseveriamo a pregare, il Signore ci concederà l'uno e l'altro, il desiderio e l'aiuto a risorgere. Petite et accipietis. È promessa di Dio, non può mancare. Preghiamo dunque e diciamo con s. Agostino: Meritum meum misericordia tua. Signore, io non ho meriti per essere esaudito da voi; ma la misericordia vostra e i meriti di Gesù Cristo, o eterno Padre, sono i meriti miei. Il ricorrere anche alla ss. Vergine è un gran mezzo per uscire dalla tepidezza.

NOTE

[1] Eccl. 19. 1.
[2] Hom. init. quadrag.
[3] In ps. 49.
[4] L. 10. Mor. c. 9.
[5] Serm. 3
[6] Ephes. 4. 27.
[7] Apoc. 3. 15.
[8] Menoch. in Apoc. loc. cit.
[9] L. 5. p. 2. c. 16.
[10] Apoc. loc. cit.
[11] Corn. a Lap. in Apoc. 3. 16.
[12] Vide Past. p. 3. adm. 34.
[13] Past. p. 3. adm 34.
[14] P. Alvarez lib. 5. p. 2. cap. 16.
[15] Apoc. 3. 16.
[16] Corn. a Lap.
[17] Mich. 6. 15.
[18] Ier. 48.
[19] 2. Cor. 9. 6.
[20] Matth. 25. 29.
[21] 21. 41.
[22] Ib. vers. 43.
[23] Aggaei 1. 6.
[24] P. Alvar. l. 1. c. 12.
[25] Serm. 2. de s. Andrea.
[26] In Apoc. 3. 15.
[27] 15. 15.
[28] Epist. 3. 2.
[29] Serm. 4. de quadrag.
[30] Prov. 24. 16.
[31] De verb. Ap. serm. 29. c. 6.
[32] 1 Io. epist. 1. 9.
[33] De consol. pusil. §. 2.
[34] 3. p. qu. 87. art. 3.
[35] Serm. 45. art. 3 l. 2.
[36] Eccl. 10. 1.
[37] Serm. 4. de convers. s. Pauli.
[38] 12. 47. et 48.
[39] Luc. 18. 27.