LA QUESTIONE DELL'AMMISSIONE DELLE DONNE AL SACERDOZIO MINISTERIALE

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Congregazione
per la Dottrina della Fede
Dichiarazione «Inter insigniores» sull’ordinazione delle donne
LA QUESTIONE DELL’AMMISSIONE DELLE DONNE AL SACERDOZIO MINISTERIALE

 
 

  (La
numerazione a margine è riportata dal vol 5 degli Enchiridion Vaticanum)

Introduzione: Il posto della donna nella società moderna e nella Chiesa

[2110] Tra i fenomeni che
caratterizzano la nostra epoca il Sommo Pontefice Giovanni XXIII di v. m. indicava,
nell’enciclica Pacem in terris dell’11 aprile 1963, ìl’ingresso della donna
nella vita pubblica: piú accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà
cristiana; piú lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre
tradizioni o civiltàî. Nel medesimo senso il concilio Vaticano II, enumerando
nella costituzione pastorale Gaudium et spes le forme di discriminazione relative
ai diritti fondamentali della persona, le quali debbono essere superate ed eliminate
come contrarie al disegno di Dio, indica in primo luogo quella che è fondata
sul sesso. L’eguaglianza che ne risulterà deve condurre alla costruzione di
un mondo non già livellato ed uniforme, ma armonioso ed unificato, se gli
uomini e le donne vi apportano le ricchezze e i dinamismi loro propri, come precisava
recentemente il papa Paolo VI.

Il posto
della donna nella Chiesa

[2111] Nella vita stessa
della Chiesa – la storia ce lo dimostra – vi sono state donne che hanno esercitato
un ruolo decisivo e svolto compiti di valore considerevole. Basta pensare alle fondatrici
delle grandi famiglie religiose, come santa Chiara d’Assisi e santa Teresa d’Avila.
Quest’ultima, d’altra parte, e santa Caterina da Siena hanno lasciato scritti cosí
ricchi di dottrina spirituale, che il papa Paolo VI le ha annoverate tra i dottori
della Chiesa. Né si potrebbero dimenticare le innumerevoli donne che si sono
consacrate al Signore per la pratica delle opere di carità o per la causa
delle missioni, come pure quelle spose cristiane che hanno esercitato un influsso
profondo sulle loro famiglie e, in particolare, hanno trasmesso ai loro figli la
fede.
[2112] Il nostro tempo, tuttavia, presenta esigenze maggiori: ìPoiché ai nostri
giorni le donne prendono parte sempre piú attiva in tutta la vita sociale,
è di grande importanza una loro piú larga partecipazione anche nei
vari campi dell’apostolato della Chiesaî. questa consegna del concilio Vaticano II
ha già determinato un movimento di evoluzione, che è tuttora in corso:
si tratta, beninteso, di esperienze diverse che hanno bisogno di maturare. Ma – come
sottolineava ancora Paolo VI – sono già molto numerose le comunità
cristiane, che beneficiano dell’impegno apostolico delle donne. Alcune di queste
donne sono chiamate a prender parte alle istanze di riflessione pastorale, sia a
livello delle diocesi che su scala parrocchiale; la Sede Apostolica ha ammesso delle
donne a far parte di alcuni suoi organismi di lavoro. 
[2113] Ora, da un certo numero di anni, diverse comunità cristiane, sorte
dalla riforma del XVI secolo o in epoca successiva, hanno ammesso le donne all’ufficio
di pastore, allo stesso titolo degli uomini: la loro iniziativa ha provocato, da
parte dei membri di tali comunità o di gruppi simili, richieste e scritti
tendenti a generalizzare questa ammissione, come anche, del resto, reazioni in senso
contrario. Ciò costituisce, dunque, un problema ecumenico, sul quale la Chiesa
cattolica deve far conoscere il proprio pensiero, tanto piú che in diversi
settori dell’opinione pubblica ci si è domandato se, a sua volta, essa non
dovrebbe modificare la propria disciplina ed ammettere le donne all’ordinazione sacerdotale.
Alcuni teologi cattolici hanno addirittura posto pubblicamente questo problema e
hanno provocato ricerche non solo nell’ambito dell’esegesi, della patristica, della
storia della Chiesa, ma anche nel campo della storia delle istituzioni e dei costumi,
della sociologia, della psicologia; i diversi argomenti, capaci di portare un chiarimento
in questo importante problema, sono stati sottoposti ad un esame critico. Trattandosi
di una discussione sulla quale la teologia classica non s’è molto attardata,
l’attuale modo d’argomentare rischia di trascurare elementi essenziali.
[2114] Per questi motivi, in esecuzione di un mandato ricevuto dal Santo Padre e
facendo eco alla dichiarazione che egli stesso ha fatto nella sua lettera del 30
novembre 1975, la Congregazione per la dottrina della fede ritiene di dover richiamare
che la Chiesa, per fedeltà all’esempio del suo Signore, non si considera autorizzata
ad ammettere le donne all’ordinazione sacerdotale, e crede opportuno, nelle presenti
circostanze, di spiegare questa posizione della Chiesa, che sarà forse risentita
dolorosamente, ma il cui valore positivo apparirà con l’andar del tempo, in
quanto potrebbe aiutare ad approfondire la missione ìrispettivaî dell’uomo e della
donna.

I. Il
fatto della tradizione

[2115] La Chiesa cattolica
non ha mai ritenuto che le donne potessero ricevere validamente l’ordinazione presbiterale
o episcopale. Alcune sette eretiche dei primi secoli, soprattutto gnostiche, vollero
affidare l’esercizio del ministero sacerdotale a delle donne: tale innovazione fu
subito rilevata e biasimata dai padri, i quali la giudicarono come inaccettabile
nella Chiesa. È pur vero che nei loro scritti si può rintracciare l’innegabile
influsso di pregiudizi sfavorevoli alla donna, i quali tuttavia – occorre sottolinearlo
– ebbero ben poca incidenza sulla loro azione pastorale e, meno ancora, sulla loro
direzione spirituale. Ma al di là di queste considerazioni, suggerite dallo
spirito dei tempi, si trova espresso, soprattutto nei documenti canonici della tradizione
antiochena ed egiziana, questo motivo essenziale che la Chiesa, chiamando unicamente
uomini all’ordine sacro e al ministero propriamente sacerdotale, intende restare
fedele al tipo di ministero ordinato, voluto dal signore Gesú Cristo e scrupolosamente
conservato dagli apostoli.
[2116] La medesima convinzione anima la teologia medioevale, anche se i maestri della
scolastica, nel tentativo di chiarire con la ragione i dati della fede, presentano
sovente su questo punto argomentazioni, che il pensiero moderno difficilmente potrebbe
ammettere, o che addirittura rifiuterebbe a buon diritto. Da allora e fino alla nostra
epoca, si può dire che la questione non sia piú stata sollevata, giacché
la prassi beneficiò di un possesso pacifico e universale.
[2117] La tradizione della Chiesa in materia è stata, dunque, talmente stabile
nel corso dei secoli, che il magistero non avvertí il bisogno di intervenire
per affermare un principio che non incontrava opposizione, o per difendere una legge
che non era contestata. Ogni volta, però, che questa tradizione aveva occasione
di manifestarsi, essa attestava la volontà della Chiesa di conformarsi al
modello che il Signore le aveva lasciato.
[2118] La stessa tradizione è stata fedelmente salvaguardata dalle chiese
d’oriente. La loro unanimità su questo punto appare. tanto maggiormente degna
di nota, quando si tenga conto che, circa molte altre questioni, la loro disciplina
ammette una grande diversità. Ed anche ai giorni nostri queste stesse chiese
rifiutano di associarsi alle richieste, miranti ad ottenere l’accesso delle donne
all’ordinazione sacerdotale.

II. L’atteggiamento
di Gesú

[2119] Gesú Cristo
non ha chiamato alcuna donna a far parte dei dodici. Se egli ha fatto cosí,
non è stato per conformarsi alle usanze del suo tempo, poiché l’atteggiamento,
da lui assunto nei confronti delle donne, contrasta singolarmente con quello del
suo ambiente e segna una rottura voluta e coraggiosa. È cosí che egli,
con grande stupore dei suoi stessi discepoli, conversa pubblicamente con la samaritana
(cf. Gv 4,27); non tiene alcun conto dello stato di impurità legale dell’emorroissa
(cf. Mt 9, 20-22); lascia che una peccatrice lo avvicini presso Simone, il fariseo
(cf. Lc 7, 37 ss.); e, perdonando la donna adultera, si preoccupa di mostrare che
non si deve essere piú severi verso la colpa di una donna, che verso quella
degli uomini (cf. Gv 8, 11). Egli non esita a prendere le distanze rispetto alla
legge di Mosè, per affermare l’eguaglianza dei diritti e dei doveri dell’uomo
e della donna di fronte al vincolo del matrimonio (cf. Mc 10,2-11; Mt 19,3-9).
[2120] Nel suo ministero itinerante Gesú non si fa accompagnare soltanto dai
dodici, ma anche da un gruppo di donne: ìMaria di Magdala, dalla quale erano usciti
sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte
altre, che li assistevano con i loro beniî (Lc 8,2-3).
[2121] In contrasto con la mentalità giudaica che non accordava grande valore
alla testimonianza delle donne, come dimostra il diritto ebraico, sono tuttavia delle
donne che hanno avuto, per prime, il privilegio di vedere il Cristo risorto, ed è
ancora ad esse che Gesú affida l’incarico di recare il primo messaggio pasquale
agli stessi undici (cf. Mt 28, 7-10; Lc 24,9-10; Gv 20, 11-18), per prepararli a
divenire i testimoni ufficiali della resurrezione.
[2122] Siffatte constatazioni, è vero, non forniscono un’evidenza immediata.
Ma ciò non può far meraviglia, poiché i problemi sollevati dalla
parola di Dio superano l’evidenza. Per cogliere il senso ultimo della missione di
Gesú, come anche quello della Scrittura, non può bastare l’esegesi
puramente storica dei testi. Si deve, però, riconoscere che vi è qui
un insieme di indizi convergenti, i quali sottolineano il fatto importante che Gesú
non ha affidato alle donne l’incarico dei dodici. La sua stessa Madre, cosí
strettamente associata al mistero del Figlio, e il cui incomparabile ruolo è
sottolineato dai vangeli di Luca e di Giovanni, non è stata investita del
ministero apostolico. Ciò indusse i padri a presentarla come esempio della
volontà di Cristo in questo campo; e agli inizi del secolo XIII;, il papa
Innocenzo III confermò ancora la medesima dottrina: ìBenché la beata
vergine Maria superasse in dignità ed eccellenza tutti gli apostoli, tuttavia
non a lei, ma a costoro il Signore affidò le chiavi del regno dei cieliî.

III.
La prassi degli apostoli

[2123] La comunità
apostolica è rimasta fedele all’atteggiamento di Gesú. Nella piccola
cerchia di coloro che si riuniscono nel cenacolo dopo l’ascensione, Maria occupa
un posto privilegiato (cf. At 1, 14). Eppure, non è lei che viene designata
per entrare nel collegio dei dodici, al momento dell’elezione che porterà
alla scelta di Mattia: coloro che sono presenti sono due discepoli, dei quali i vangeli
non fanno neppure menzione. Nel giorno di pentecoste lo Spirito santo discese su
tutti, uomini e donne (cf. At 2, 1; 1, 14), e tuttavia l’annuncio dell’adempimento
delle profezie in Gesú fu proclamato da ìPietro e gli undiciî (At 2, 14).
[2124] Allorché costoro e Paolo uscirono dai confini del mondo giudaico, la
predicazione del vangelo e la vita cristiana nella civiltà greco-romana li
indussero a rompere, talvolta dolorosamente, con le pratiche mosaiche. Essi avrebbero,
dunque, potuto pensare, se su questo punto non fossero stati persuasi del loro dovere
di fedeltà al Signore, di conferire l’ordinazione alle donne. Nel mondo ellenistico
parecchi culti di divinità pagane erano affidati a sacerdotesse. I greci,
infatti, non condividevano le concezioni dei giudei: benché alcuni filosofi
abbiano professato l’inferiorità della donna, gli storici sottolineano, tuttavia,
l’esistenza di un certo movimento per la promozione femminile durante il periodo
imperiale. Di fatto, constatiamo dal libro degli Atti degli apostoli e dalle Lettere
di san Paolo che alcune donne collaborano con l’apostolo per il vangelo (cf. Rm 16,3-12;
Fil 4,3); egli ne enumera i nomi con compiacimento nelle formule finali di saluto
delle sue lettere. Talune esercitano spesso un influsso di non lieve importanza sulle
conversioni: Priscilla, Lidia e altre; Priscilla soprattutto, la quale si è
assunta l’impegno di completare la formazione di Apollo (cf. At 18,26); Febe che
è a servizio della Chiesa di Cencre (cf. Rm 16, 1). Tutti questi fatti manifestano
nella Chiesa apostolica una notevole evoluzione nei confronti dei costumi del giudaismo.
Ciononostante, non è stata, in nessun momento, posta la questione di conferire
l’ordinazione a queste donne. 
2125] Nelle lettere paoline autorevoli esegeti hanno notato una differenza tra due
formule, usate dall’apostolo: egli scrive indistintamente ìmiei collaboratoriî (Rm
16,3; Fil 4,2-3) a proposito degli uomini e delle donne, che in un modo o nell’altro
l’aiutano nel suo apostolato; ma riserva il titolo di ìcooperatori di Dioî (1 Cor
3,9; cf. 1 Ts 3,2) ad Apollo, a Timoteo e a se stesso, Paolo, cosí designati
perché sono direttamente consacrati al ministero apostolico, alla predicazione
della parola di Dio. Nonostante il loro ruolo cosí importante al momento della
risurrezione, la collaborazione delle donne non giunge, per san Paolo, fino all’esercizio
dell’annuncio ufficiale e pubblico del messaggio, che resta nella linea esclusiva
della missione apostolica.

IV. Valore
permanente dell’atteggiamento di Gesú e degli apostoli

[2126] Da un tale atteggiamento
di Gesú e degli apostoli, considerato come normativo da tutta la tradizione
fino ai nostri giorni, potrebbe oggi la Chiesa allontanarsi? In favore di una risposta
affermativa a questa domanda, sono stati portati diversi argomenti, che vale la pena
esaminare. Si è voluto, in particolare, che la presa di posizione di Gesú
e degli apostoli si spiegherebbe mediante l’influsso del loro ambiente e del loro
tempo. Se Gesú – dicono – non ha conferito alle donne, e neppure a sua madre,
un ministero che le assimila ai dodici, è perché le circostanze storiche
non glielo permettevano. Nessuno, tuttavia, ha mai provato – ed è, senza dubbio
impossibile provarlo – che questo atteggiamento si ispiri solamente a motivi socio-culturali.
L’esame dei vangeli – come abbiamo visto – indica, al contrario, che Gesú
ha rotto con i pregiudizi del suo tempo, contravvenendo largamente alle discriminazioni
praticate nei confronti delle donne. Non si può, dunque, sostenere che, non
chiamando le donne ad entrare nel gruppo apostolico, Gesú si sia semplicemente
lasciato guidare da ragioni di opportunità. A piú forte ragione, questo
condizionamento socio-culturale non avrebbe trattenuto gli apostoli nell’ambiente
greco, dove queste discriminazioni non esistevano.
[2127] Si ricava parimenti un’obbiezione dal carattere caduco, che si crede di riconoscere
oggi ad alcune prescrizioni di san Paolo, riguardanti le donne, e dalle difficoltà
che, a questo proposito, certi aspetti della sua dottrina sollevano. Ma bisogna notare
che queste disposizioni, probabilmente ispirate agli usi del tempo, non riguardano
se non pratiche disciplinari di scarsa importanza, come l’obbligo fatto alle donne
di portare il velo sul capo (cf. 1 Cor 11, 2-16); tali esigenze non hanno piú
valore normativo. Nondimeno, il divieto fatto da Paolo alle donne di ìparlareî nell’assemblea
(cf. 1 Cor 14, 34-35; 1 Tm 2, 12) è di natura differente. E gli esegeti ne
precisano il senso cosí: l’apostolo non s’oppone per nulla al diritto, che
riconosce peraltro alle donne, di profetizzare nell’assemblea (cf. 1 Cor 11,5); la
proibizione riguarda unicamente la funzione ufficiale d’insegnare nell’assemblea
cristiana. Una tale prescrizione, per san Paolo, è legata al piano divino
della creazione (cf. 1 Cor 11,7; Gen 2, 18-24); difficilmente vi si potrebbe vedere
l’espressione di un dato culturale. Non bisogna dimenticare, del resto, che noi dobbiamo
a san Paolo uno dei testi piú vigorosi del nuovo testamento sull’eguaglianza
fondamentale dell’uomo e della donna, come figli di Dio nel Cristo (cf. Gal 3,28).
Non c’è ragione, perciò, di accusarlo di pregiudizi ostili alle donne,
quando si constata la fiducia che egli loro esprime e la collaborazione che chiede
loro nel suo apostolato.
[2128] Ma oltre a queste obbiezioni, tratte dalla storia dei tempi apostolici, coloro
che sostengono la legittimità di una evoluzione in materia traggono argomento
dalla pratica della Chiesa nella disciplina dei sacramenti. Si è potuto rilevare,
soprattutto nella nostra epoca, come la Chiesa ha coscienza di possedere sui sacramenti,
ancorché istituiti dal Cristo, un certo potere. Essa ne usò nel corso
dei secoli per precisarne il segno e le condizioni per amministrarli; le recenti
decisioni dei pontefici Pio XII e Paolo VI ne sono la prova. Nondimeno occorre sottolineare
che questo potere, che è reale, resta limitato. Come ricordava Pio XII, ìla
Chiesa non ha alcun potere sulla sostanza dei sacramenti, vale a dire su tutto ciò
che il Cristo signore, secondo la testimonianza delle fonti della rivelazione, ha
voluto che si mantenga nel segno sacramentaleî. Questo era stato già l’insegnamento
del concilio di Trento, che aveva dichiarato: ìNella Chiesa è sempre esistito
questo potere, che cioè nell’amministrazione dei sacramenti, mantenendo inalterata
la loro sostanza, essa possa stabilire o modificare tutto ciò che giudica
piú conveniente all’ostilità di quelli che li ricevono o al rispetto
verso gli stessi sacramenti, secondo il variare delle circostanze, dei tempi e dei
luoghiî.
[2129] D’altra parte, non bisogna dimenticare che i segni sacramentali non sono convenzionali;
e anche se è vero che sono, sotto certi aspetti, dei segni naturali perché
rispondono al simbolismo profondo dei gesti e delle cose, essi sono piú di
questo: sono destinati principalmente a coinvolgere l’uomo di ciascuna epoca con
l’evento supremo della storia della salvezza, a fargli comprendere, mediante tutta
la ricchezza della pedagogia e del simbolismo della Bibbia, quale grazia essi significhino
e producano. Cosí, il sacramento dell’eucaristia non è soltanto un
convito fraterno, ma è, ad un tempo, il memoriale che rende presente ed ìattualizzaî
il sacrificio del Cristo e la sua offerta mediante la Chiesa; il sacerdozio ministeriale
non è un semplice servizio di carattere pastorale, ma garantisce la continuità
delle funzioni affidate dal Cristo ai dodici, e dei poteri relativi ad esse. L’adattamento
alle civiltà ed alle epoche, dunque, non può abolire, nei punti essenziali,
il riferimento sacramentale agli avvenimenti costitutivi del cristianesimo e al Cristo
medesimo.
[2130] In ultima analisi, è la Chiesa che, per la voce del suo magistero,
assicura, in questi vari campi, il discernimento tra ciò che può cambiare
e ciò che deve restare immutabile. Quando essa ritiene di non poter accettare
certi cambiamenti, è perché sa di essere legata al modo d’agire di
Cristo; il suo atteggiamento, nonostante le apparenze, non è allora quello
dell’arcaismo, bensí quello della fedeltà: essa non si può veramente
comprendere se non a questa sola luce. La Chiesa si pronuncia, in virtú della
promessa del Signore e della presenza dello Spirito santo, al fine di proclamare
meglio il mistero di Cristo, di salvaguardarne e di manifestarne la ricchezza nella
sua integrità.
[2131] Questa pratica della Chiesa riveste, dunque, un carattere normativo: nel fatto
di non conferire l’ordinazione sacerdotale se non ad uomini è implicita una
tradizione continua nel tempo, universale in oriente e in occidente, ben attenta
nel reprimere tempestivamente gli abusi. Una tale norma, che si appoggia sull’esempio
del Cristo, è seguita perché viene considerata conforme al disegno
di Dio per la sua Chiesa.

V. Il
sacerdozio ministeriale alla luce del mistero di Cristo

[2132] Dopo aver ricordato
la norma della Chiesa ed i suoi fondamenti, è utile ed opportuno chiarire
questa regola, indicando la profonda convenienza che la riflessione teologica scopre
tra la natura propria del sacramento dell’ordine, nel suo riferimento specifico al
mistero di Cristo, ed il fatto che soltanto gli uomini sono stati chiamati a ricevere
l’ordinazione sacerdotale. Non si tratta già di apportarvi un’argomentazione
dimostrativa, ma di chiarire questa dottrina mediante l’analogia della fede.
[2133] L’insegnamento costante della Chiesa, rinnovato e precisato dal concilio Vaticano
II, richiamato ancora dal sinodo dei vescovi nel 1971 e da questa Congregazione per
la dottrina della fede nella sua dichiarazione del 24 giugno 1973, proclama che il
vescovo o il presbitero, nell’esercizio del rispettivo ministero, non agisce a suo
proprio nome, ma rappresenta il Cristo, il quale agisce per mezzo di lui: ìIl sacerdote
compie realmente le veci di Cristoî, come scriveva già nel secolo III s. Cipriano.
È proprio questo valore di rappresentatività del Cristo che san Paolo
considerava come caratteristico della sua funzione apostolica (cf. 2 Cor 5,20; Gal
4, 14), Esso raggiunge la piú alta espressione ed una forma del tutto particolare
nella celebrazione dell’eucaristia, la quale è la sorgente e il centro dell’unità
della Chiesa, convito sacrificale in cui il popolo di Dio è associato al sacrificio
di Cristo: il sacerdote che, solo, ha il potere di compierlo, agisce in questo caso
non soltanto per la virtú che gli è conferita da Cristo, ma nella persona
di Cristo, cioè sostenendo la parte di Cristo, al punto di essere la stessa
sua immagine, allorché pronuncia le parole della consacrazione.
[2134] Il sacerdozio cristiano è, dunque, di natura sacramentale: il sacerdote
è un segno, la cui efficacia soprannaturale proviene dall’ordinazione ricevuta,
ma un segno che deve essere percettibile e che i fedeli devono poter riconoscere
facilmente. L’economia sacramentale è fondata, in effetti, su segni naturali,
su simboli che sono inscritti nella psicologia umana: ìI segni sacramentali – dice
s. Tommaso – rappresentano ciò che significano per una naturale rassomiglianzaî.
Ora, questo criterio di rassomiglianza vale, come per le cose, cosí per le
persone: allorché occorre esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo nell’eucaristia,
non si avrebbe questa ìnaturale rassomiglianzaî, che deve esistere tra il Cristo
e il suo ministro, se il ruolo del Cristo non fosse tenuto da un uomo: in caso contrario,
si vedrebbe difficilmente in chi è ministro l’immagine di Cristo. In effetti,
il Cristo stesso fu e resta un uomo.
[2135] Certamente, è di tutta l’umanità, tanto delle donne quanto degli
uomini, che il Cristo è primogenito: l’unità che egli ha ristabilito
dopo il peccato è tale che non c’è piú né giudeo né
greco, né schiavo né libero, non c’è piú uomo e donna;
tutti, infatti, sono uno solo in Cristo Gesú (cf. Gal 3,28). Tuttavia, l’incarnazione
del Verbo è avvenuta secondo il sesso maschile: è, sí, una questione
di fatto, ma un tal fatto, lungi dall’implicare una presunta superiorità naturale
dell’uomo sulla donna, è inseparabile dall’economia della salvezza. In realtà,
esso è in armonia col disegno di Dio nel suo insieme, cosí come egli
stesso l’ha rivelato ed il cui centro è il mistero dell’alleanza.
[2136] Infatti, la salvezza offerta da Dio agli uomini, l’unione cui sono chiamati
con lui, in una parola l’alleanza, riveste fin dall’antico testamento, presso i profeti,
la forma privilegiata di un mistero nuziale: il popolo eletto diventa agli occhi
di Dio una sposa ardentemente amata. Di questa intimità d’amore sia la tradizione
giudaica che quella cristiana hanno scoperto la profondità, leggendo e rileggendo
il Cantico dei cantici; lo sposo divino resterà fedele anche quando la sposa
tradirà il suo amore, quando Israele sarà infedele a Dio (cf. Os 1-3;
Ger 2). Venuta ìla pienezza dei tempiî (Gal 4,4), il Verbo, figlio di Dio, assume
la carne per inaugurare e sigillare la nuova ed eterna alleanza nel suo sangue, che
sarà versato per la moltitudine in remissione dei peccati: la sua morte radunerà
i figli di Dio che erano dispersi; dal suo fianco trafitto nascerà la Chiesa,
come Eva è nata da quello di Adamo. Allora si realizza pienamente e definitivamente
il mistero nuziale, annunziato e cantato nell’antico testamento: il Cristo è
lo sposo; la Chiesa è la sua sposa, che egli ama poiché se l’è
acquistata col suo sangue e l’ha resa gloriosa, santa ed immacolata, e dalla quale
è ormai inseparabile. Questo tema nuziale, che si precisa a partire dalle
lettere di san Paolo (cf. 2 Cor 11, 2; Ef 5,22-33) fino agli scritti giovannei (soprattutto
Gv 3,29; Ap 19,7 e 9), è presente pure nei vangeli sinottici: finché
lo sposo è con loro, i suoi amici non devono digiunare (cf. Mc 2, 19); il
regno dei cieli è simile a un re che fece le nozze per suo figlio (cf. Mt
22, 1-14). È attraverso questo linguaggio della Scrittura, tutto intessuto
di simboli e tale da esprimere e raggiungere l’uomo e la donna nella loro profonda
identità, che ci è rivelato il mistero di Dio e di Cristo, mistero
che di per sé è insondabile.
[2137] È per questo che non si deve mai trascurare questo fatto che Cristo
è un uomo. Pertanto, a meno che non si voglia misconoscere l’importanza di
questo simbolismo per l’economia della rivelazione, bisogna ammettere che, nelle
azioni che esigono il carattere dell’ordinazione e in cui è rappresentato
il Cristo stesso, autore dell’alleanza, sposo e capo della Chiesa, nell’esercizio
del suo ministero di salvezza, e ciò si verifica nella forma piú alta
nel caso dell’eucaristia, il suo ruolo deve essere sostenuto – è questo il
senso originario della parola ìpersonaî – da un uomo. E ciò all’uomo non deriva
da alcuna superiorità personale nell’ordine dei valori, ma soltanto da una
diversità di fatto sul piano delle funzioni e del servizio.
[2138] Si potrebbe dire che, essendo Cristo al presente nella condizione celeste,
sarebbe ormai indifferente che egli sia rappresentato da un uomo o da una donna,
poiché ìnella resurrezione non si prende né moglie né maritoî
(cf. Mt 22,30)? Ma questo testo non significa che la distinzione dell’uomo e della
donna, in quanto determina l’identità propria della persona, sia soppressa
nella glorificazione; ciò che vale per noi, vale anche per il Cristo. Infatti,
è appena necessario ricordare che negli esseri umani la differenza sessuale
ha un influsso rilevante, piú profondo che non, ad esempio, le differenze
etniche: queste non raggiungono la persona umana tanto intimamente quanto la differenza
dei sessi, direttamente ordinata sia alla comunione delle persone che alla generazione
degli uomini. Nella rivelazione biblica essa è l’effetto di una volontà
primordiale di Dio: ìUomo e donna li creòî (Gen 1,27).
[2139] Tuttavia, alcuni osserveranno forse che il sacerdote soprattutto quando presiede
le azioni liturgiche e sacramentali, rappresenta egualmente la Chiesa: egli agisce
a suo nome, con ìl’intenzione di fare ciò che essa faî. In tal senso, i teologi
del medioevo dicevano che il ministro agisce anche ìnella persona della Chiesaî,
cioè a nome di tutta la Chiesa e per rappresentarla. E di fatto, checché
ne sia della partecipazione dei fedeli ad una azione liturgica, è proprio
a nome di tutta la Chiesa che tale azione è celebrata dal sacerdote: questi
prega a nome di tutti; nella messa offre il sacrificio di tutta la Chiesa; nella
nuova pasqua è la Chiesa che immola il Cristo, sotto segni visibili, per il
ministero dei sacerdoti. Cosí, dal momento che il sacerdote rappresenta anche
la Chiesa, non si potrebbe pensare che tale rappresentanza possa essere assicurata
da una donna, secondo il simbolismo già esposto; È vero che il sacerdote
rappresenta la Chiesa, che è il corpo di Cristo. Ma se lo fa, è precisamente
perché, innanzitutto, egli rappresenta il Cristo stesso, il quale è
il capo e il pastore della Chiesa: formula questa usata dal concilio Vaticano II,
che precisa e completa l’espressione ìnella persona di Cristoî. È con tale
qualifica che il sacerdote presiede l’assemblea cristiana e celebra il sacrificio
eucaristico, nel quale la Chiesa tutta offre e si offre.
[2140] Se si dà valore a queste riflessioni, si comprenderà meglio
come sia ben fondata la prassi della Chiesa, e si concluderà che le controversie,
suscitate ai nostri giorni circa l’ordinazione della donna, costituiscono per tutti
i cristiani un pressante invito ad approfondire il senso dell’episcopato e del presbiterato,
a riscoprire la specifica posizione del sacerdote nella comunità dei battezzati,
della quale egli certo fa parte, ma dalla quale si distingue poiché, nelle
azioni che esigono il carattere dell’ordinazione, egli è per essa – con tutta
l’efficacia che comporta il sacramento – l’immagine, il simbolo di Cristo stesso
che chiama, perdona, compie il sacrificio dell’alleanza.

VI. Il
sacerdozio ministeriale nel mistero della Chiesa

[2141] Forse è opportuno
ricordare che i problemi di ecclesiologia e di teologia sacramentaria, soprattutto
quando riguardano il sacerdozio – come in questo caso -, non possono trovare la loro
soluzione che alla luce della rivelazione. Le scienze umane, per quanto prezioso
sia il loro contributo nell’ambito proprio, non possono bastare, poiché non
possono raggiungere la realtà della fede; il contenuto propriamente soprannaturale
di queste sfugge alla loro competenza.
[2142] È per questo che si deve sottolineare come la Chiesa sia una società
diversa dalle altre società, originale nella sua natura e nelle sue strutture.
La funzione pastorale, nella Chiesa, è normalmente legata al sacramento dell’ordine:
non si tratta soltanto di un governo paragonabile ai modi di autorità che
si verificano negli stati. Esso non è concesso per scelta spontanea degli
uomini: anche quando comporta una designazione per via di elezione, è l’imposizione
delle mani e la preghiera dei successori degli apostoli che garantiscono la scelta
di Dio; ed è lo Spirito santo, donato mediante l’ordinazione, che consente
di partecipare al governo del supremo pastore, Cristo (cf. At 20,28). È funzione
di servizio e di amore: ìSe mi ami, pasci le mie pecoreî (cf. Gv 21, 15-17).
[2143] Per questa ragione, non si vede come si possa proporre l’accesso delle donne
al sacerdozio in virtú dell’eguaglianza dei diritti della persona umana, eguaglianza
che vale pure per i cristiani. E talvolta si utilizza a tale scopo il testo sopra
menzionato della lettera ai Galati (3,28), secondo il quale, nel Cristo, non c’è
piú distinzione tra l’uomo e la donna. Ma un tal passo non riguarda minimamente
i ministeri: esso afferma soltanto la vocazione universale alla filiazione divina,
che è uguale per tutti. D’altra parte e soprattutto, significherebbe misconoscere
completamente la natura del sacerdozio ministeriale il considerarlo come un diritto:
il battesimo non conferisce alcun titolo personale al ministero pubblico nella Chiesa.
Il sacerdozio non è conferito per l’onore e il vantaggio di colui che lo riceve,
ma come un servizio di Dio e della Chiesa; esso è oggetto di una vocazione
specifica, totalmente gratuita: ìNon siete voi che avete scelto me; sono io che vi
ho scelti e costituitiî… (Gv 15, 16; cf. Eb 5,4).
2144] Si dice a volte e si scrive in libri e riviste che ci sono delle donne, le
quali si sentono una vocazione sacerdotale. Una tale attrattiva, per quanto nobile
e comprensibile, non costituisce ancora una vocazione. Questa, infatti, non potrebbe
ridursi alla sola inclinazione personale, che può restare puramente soggettiva.
Poiché il sacerdozio è un ministero peculiare di cui la Chiesa ha ricevuto
l’incarico e il controllo, l’autenticazione da parte della Chiesa risulta qui indispensabile;
essa fa parte costitutiva della vocazione: il Cristo ha scelto ìcoloro che egli volevaî
(Mc 3, 13). Al contrario, esiste una vocazione universale di tutti i battezzati all’esercizio
del sacerdozio regale mediante l’offerta della vita a Dio e la testimonianza come
lode a Dio.
[2145] Le donne che formulano la loro richiesta in ordine al sacerdozio ministeriale
sono certo ispirate dal desiderio di servire Cristo e la Chiesa. Né desta
sorpresa il fatto che esse, al mo mento in cui prendono coscienza delle discriminazioni
di cui sono state oggetto, giungano al punto di desiderare lo stesso sacerdozio ministeriale.
Non bisogna, tuttavia, dimenticare che il sacerdozio non fa parte dei diritti della
persona, ma dipende dall’economia del mistero di Cristo e della Chiesa. La funzione
del sacerdote non può essere ambita come termine di una promozione sociale;
nessun progresso puramente umano della società o della persona può
di per se stesso darvi accesso: si tratta di un ordine diverso.
[2146] Ci rimane, dunque, da considerare meglio la vera natura di questa eguaglianza
dei battezzati, la quale è una delle grandi affermazioni del cristianesimo:
l’eguaglianza non è affatto identità, nel senso che la Chiesa è
un corpo differenziato, nel quale ciascuno ha la sua funzione; i compiti sono distinti
e non devono essere confusi. Essi non danno adito alla superiorità degli uni
sugli altri; non forniscono alcun pretesto alla gelosia; il solo carisma superiore,
che può e deve essere desiderato, è la carità (cf. 1 Cor 12-13).
I piú grandi nel regno dei cieli non sono i ministri, ma i santi.
[2147] La santa madre Chiesa auspica che le donne cristiane prendano pienamente coscienza
della grandezza della loro missione: il loro ruolo sarà oggigiorno determinante
sia per il rinnovamento e l’umanizzazione della società, sia per la riscoperta,
tra i credenti, del vero volto della Chiesa. Nel corso dell’udienza, concessa il
15 ottobre 1976 al sottoscritto prefetto della Congregazione per la dottrina della
fede, Paolo VI ha approvato questa dichiarazione, l’ha confermata e ne ha ordinato
la pubblicazione.

 Roma, palazzo della Congregazione per la dottrina della fede, 15 ottobre
1976, festa di santa Teresa d’Avila.

  
                             
+ Franjo card. Seper
, prefetto.
                            
 + Fr. Jerome Hamer, O.P., arciv. tit. di Lorium, segretario.