Umiltà di Gesù, vittima di espiazione

  • Categoria dell'articolo:Spiritualita

P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA


CAPITOLO DICIASSETTESIMO. Umiltà di Gesù, vittima di espiazione

   


Mistero più stupendo ancora! GESÙ, Vittima di espiazione, accetta con amore anzi ricerca con irresistibile inclinazione, il disprezzo, l’obbrobrio e l’ignominia.
     GESÙ è Vittima di espiazione. Questo, significa che GESÙ, fino dal primo istante della sua vita, ha preso sopra di sé tutte le iniquità della Terra. Ha preso questo carico e lo ha portato, perché suo Padre «gliel’ha imposto» (Is 53, 6); e GESÙ, con un inesprimibile amore verso la volontà infinitamente adorabile del Padre, e per la redenzione delle nostre anime, ne ha accettato il peso spaventevole. Ma in qual senso GESÙ ha portato sopra di sé le nostre iniquità? Nei senso più assoluto. Tutte le abominazioni del mondo gli furono imputate, come se le avesse commesse Lui stesso. Nulla ha potuto macchiare la sua Santità indefettibile e inalterabile. Egli è rimasto «il Santo, 1’Innocente, l’Immacolato, essenzialmente segregato dai peccatori» (Eb 7, 26) e libero da qualsiasi peccato. Eppure, in virtù di quella imputazione misteriosa, opera incomprensibile della potenza, della sapienza, della giustizia e della misericordia di Dio, il Padre lo ha considerato come il peccatore universale, l’unico colpevole della terra – più ancora, secondo una strana parola di san Paolo, il Padre lo ha considerato e trattato come se fosse il peccato medesimo. Eum qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit (Deus) (II Cor 5, 21).
     Ne consegue che, in tale spaventosa condizione, GESÙ meritava tutti i rigori ed i colpi dell’ira e della vendetta divina. Perché, in forza di un decreto della Giustizia eterna, il peccato doveva essere punito e vendicato secondo tutto il rigore del suo merito.


    Ma che cosa si meritano il peccato e il peccatore che lo commette?
    Abbassiamo, per un istante, i nostri sguardi verso l’inferno. Laggiù il peccatore viene castigato, nella giustizia e nella verità; e notiamo che san Tommaso ci insegna che nella condanna dei colpevoli si esercita ancora l’indulgenza del Padre: Etiam in damnatis misericordia locum habet, in quantum citra condignum puniuntur (Suppl. q. 99, art. 2). Così pure Bossuet: «La soddisfazione di GESÙ CRISTO giova indirettamente anche ai dannati, e Dio ne prende occasione per mettere nei loro supplizi, per così dire, un po’ della sua misericordia». ­ «Dio, per amore di GESÙ CRISTO castiga i dannati ed anche i demoni meno del loro merito, e di tale mitigazione essi sono debitori ai meriti infiniti di GESÙ CRISTO; questi davanti a Dio pesano più della loro ingratitudine» (Lettres diverses).
    Orbene, qual è lo stato del peccatore nell’inferno? Chi potrà dirci ciò che è un dannato? Chi dipingerà l’orribile deformità, l’avvilimento estremo di un’anima nella quale, per così dire, non vi è più traccia dell’opera di Dio, non vi è più né ordine, né armonia, né bene qualsiasi (Gb 10, 22)? È il male in tutto il suo orrore ripugnante e detestabile. Finché travasi sulla terra, il peccatore non lascia trasparire tale estrema umiliazione; ma in realtà, già la porta dell’anima; e se gli capitasse una morte improvvisa, si può dire che scenderebbe nell’inferno come nel luogo che gli conviene, dove sarebbe veramente al suo posto, senza bisogno di una sentenza di Dio per precipitarvelo.
    Quale stato ignominioso è dunque quello di un disgraziato peccatore! Un tale stato naturalmente e necessariamente è l’oggetto dell’odio di Dio. Nella sua Santità Dio lo odia, lo condanna, lo respinge mentre la sua misericordia lo protegge; ma non dipende dal peccatore di non essere schiacciato dai tremendi colpi dell’amore offeso, e precipitato per sempre nell’inferno. Dell’inferno ei merita la schifosa ignominia e le pene spaventose.     Orbene! GESÙ, la nostra dolce Vittima, fu messo, in tutta realtà, al posto di tutti i peccatori, per ricevere sopra di se stesso, affinché essi ne fossero liberi per l’eternità, tutti gli effetti dell’ira divina, accesa nel fuoco dell’infinita Santità. Per questo la sua vita non fu che povertà, contraddizioni, umiliazioni, abiezione,.. Saturabitur opprobriis (THREN., III, 30). La nascita, la Circoncisione, la fuga in Egitto, la vita nascosta, il Battesimo, la tentazione, la vita pubblica con le sue accuse e l’odio degli Scribi e Farisei, portano tali affliggenti caratteri; ma nella Passione soprattutto, nell’incomprensibile Passione, GESÙ si mostra in tutta l’onta e l’ignominia della sua condizione di Vittima espiatoria. Là si verifica, in tutto il suo rigore, quella parola meravigliosa di san Paolo: Proprio Filio suo non percepit, sed pro nobis omnibus tradidit illum (Rm 8, 32). Il Padre suo lo abbandonò senza compassione, come se, a noi ingrati e ribelli, meritevoli di tutto il rigore della sua ira, Egli volesse bene più che al suo proprio Figlio (142). Per noi Lo abbandonò a tutti gli insulti e gli oltraggi, a tutto quanto possono suggerire agli uomini, la malizia, il furore e il delirio dell’odio. Il Padre lo abbandonava; e l’umile Vittima si abbandonava… Tocchiamo uno dei Misteri più opprimenti. Lasciamo la parola a Bossuet:
     «Che fa Egli dunque nella sua Passione? Ecco che la Scrittura ce lo spiega in una parola sola: Tradebat autem juducanti se injuste. Si abbandona, si dà nelle mani di colui che lo giudica ingiustamente, e ciò che si dice del suo giudice, deve pure intendersi per conseguenza di tutti coloro che si mettono ad insultarlo. Tradebat autem, si abbandona nelle loro mani, perché facciano di, Lui tutto ciò che vogliono. Lo si vuol baciare, dà le sue labbra; si vuole legarlo, porge le mani; lo si vuole schiaffeggiare, offre le guance; si vuole percuoterlo a colpi di bastone, presenta il dorso; si vuole flagellarlo inumanamente, offre le spalle; lo si accusa davanti a Caifasso e a Pilato: egli si ritiene come reo convinto; Erode con la sua corte lo schernisce e lo rimanda come pazzo: col suo silenzio Egli tutto conferma; lo si dà in balia dei servi e dei soldati, e si abbandona ancora di più Lui stesso. Il suo volto già sì maestoso, rapiva di ammirazione il cielo e la terra: Egli, dritto e immobile, lo presenta agli sputi di quella canaglia; gli si strappano i capelli e la barba, non proferisce parola, non dà nessun lamento: è proprio una povera pecora che si lascia tosare. Venite, compagni, venite, dice quella insolente soldatesca; ecco qui quel pazzo che si mette in testa di essere il re dei Giudei; bisogna incoronarlo di spine: Tradebat autem judicanti se injuste; ed Egli riceve la corona di spine; essa non è ferma, bisogna conficcarla di più a colpi di bastone: colpite pure, ecco il capo. Erode lo ha rivestito di bianco come pazzo: portate quel lurido straccio di porpora, tanto per un nuovo colore; fate pure, ecco le spalle; qua la mano, Re dei Giudei, prendi questa canna a guisa di scettro: ecco la mano, fatene pure ciò che volete. Ah! ma ora non è più un giuoco, la tua sentenza di morte è fatta; qua ancora la mano per essere inchiodata: eccola ancora, prendetela pure. Infine, radunatevi, o Giudei e Romani, grandi e piccoli, borghesi e soldati, ritornate pure cento volte alla carica; moltiplicate senza fine colpi, oltraggi, piaghe sopra piaghe, dolori sopra dolori, indegnità sopra indegnità; insultate alla sua miseria fin sulla croce; diventi pure l’unico oggetto dei vostri scherni come un insensato, oggetto del vostro furore come uno scellerato: Tradebat autem; Egli si abbandona a tutti senza riserva, disposto a subire tutto quanto vi è di duro e di insopportabile negli scherni più disumani e insieme nella più maliziosa crudeltà» (I Sermon pour le Vendredi saint).


    Ma vi ha un Mistero di dolore e di umiliazione, nel quale il Padre sembra agire tutto solo. È il più desolante di tutti.
    «Il gran colpo del Sacrificio, il colpo che sulla croce, ai piedi della Giustizia divina, abbatte quella Vittima pubblica di tutti i peccatori, doveva venire da una potenza più grande di quella delle creature.
    «Infatti, non appartiene che a Dio di vendicare le ingiurie che riceve, e fintantoché non vi mette la sua mano, i peccati non sono castigati che debolmente; a Lui solo spetta fare giustizia dei peccatori come si conviene; Lui solo ha il braccio così potente per trattarli secondo il loro merito. «A me, a me, dice Egli stesso, a me la vendetta: saprò ben io render loro ciò che è dovuto»: Mihi vindicta, ego retribuam. Era dunque necessario che venisse Lui medesimo con tutti i suoi fulmini contro il proprio Figlio; e poiché in Lui aveva posto tutti i nostri peccati, in Lui pure doveva mettere la sua giusta vendetta. Lo ha fatto, Cristiani; non ne dubitate. Epperò il medesimo Profeta ci rivela che non contento ancora di averlo abbandonato alla volontà dei suoi nemici, il Padre, volendo fare anche Lui la sua parte, lo ha infranto e schiacciato coi colpi della sua mano onnipotente: Et Dominus voluit conterere eum in infirmitate. Lo ha fatto, dice Egli, e lo ha voluto fare: Voluit conterere, con un disegno premeditato. Pensate, Signori, dove giunge un tal supplizio; né gli uomini, né gli angeli, lo potranno mai intendere.
     «San Paolo ce ne porge una idea terribile. Considerando da una parte tutte quelle tremende maledizioni che la legge di Dio giustamente applica ai peccatori; e d’altra parte guardando, con gli occhi della fede, GESÙ CRISTO che ne tiene il posto sulla croce, GESÙ CRISTO divenuto peccato per noi, come si esprime; – san Paolo non teme di dirci che GESÙ CRISTO è stato, per noi, costituito maledizione – il testo greco porta esecrazione, – e questo da parte di Dio: perché sta scritto nella legge, e Dio medesimo lo ha detto: «Maledetto da Dio colui che pende sul legno!». San Paolo ci rivela che tale parola era profetica, e si riferiva principalmente al Figlio di Dio, il quale era il fine della legge, perciò l’applica espressamente a Lui. Eccolo dunque maledetto da Dio; avremmo noi osato dirlo, e nemmeno pensarlo, se non lo avesse detto lo Spirito Santo?…
      «Io trovo, nella Scrittura, che la maledizione di Dio contro i peccatori li circonda all’esterno: Induit maledictionem sicut, vestimentum: «Si è rivestito della maledizione come di un vestimento»; che essa penetra più avanti, entra nell’interno, attaccandosi alle facoltà dell’anima: Intravit sicut aqua in interiora ejus; e infine penetra sino al fondo della sostanza dell’anima: et sicut oleum in ossibus ejus: «E come l’olio sino al midollo delle ossa». O GESÙ, mio Salvatore, siete voi stato ridotto a tale eccesso? Certamente, Cristiani, non ne possiamo dubitare; la maledizione lo ha circondato all’esterno. Il Padre suo che, nel corso della sua vita, si era sì sovente compiaciuto di manifestare l’amore che aveva per Lui, ora lo lascia senza nessun soccorso, senza nessun segno di protezione: Fate ciò che vi piace, a voi io lo abbandono. Ma che fate dunque, o celeste Padre? È appunto in quest’ora che bisogna soccorrerlo: Ut quid, Domine, recessisti longe?». Perché vi siete ritirato così lontano? così lontano, che non comparite più: Despicis in opportunitatibus.
     «Voi sdegnate di guardare a Lui nell’ora della sua necessità e della sua afflizione, nel momento più importante. «Ecco che i Giudei gli dicono in termini formali, che se scenderà dalla croce, crederanno in Lui»: ora i cieli dovrebbero aprirsi; ora dovrebbe risuonare quella voce celeste: Questo è il mio figlio benamato». Ma no, il cielo è di bronzo sopra il suo capo: lungi dal riconoscerlo con qualche miracolo, esso ritira persino i minimi segni di protezione, al punto che i demoni medesimi, i quali ben si accorgeranno di tale prodigioso abbandono, si avanzano pure contro GESÙ CRISTO, per farne il ludibrio del loro furore. Dopo esaurite tutte le loro tentazioni, si erano ritirati da Lui sino ad altro tempo: Usque ad tempus; ciò che i Santi Padri interpretano del tempo della sua Passione, che era infatti il loro tempo. Ché se l’avevano sì terribilmente sbattuto nel deserto, pensate con qual furore, ora che era il loro giorno, lo avranno torturato con gli oltraggi!
      «In secondo luogo, la maledizione di Dio penetra nell’interno, e colpisce GESÙ CRISTO nelle sue facoltà. Osservo, nella Scrittura, che Dio ha un volto per i giusti, e un volto per i peccatori. Il volto ch’Egli ha per i giusti, è un volto sereno e tranquillo, che dissipa le nubi, che calma le angustie della coscienza e la riempie di una santa gioia: Adimplebis me laetitia cum vultu tuo. O GESÙ crocefisso! questo volto altre volte era per voi; altre volte… altre volte! Ma ora le cose sono cambiate. Vi è un altro volto che Dio rivolge contro i peccatori, un volto del quale sta scritto: Vultus autem Domini super facientes mala, «Il volto di Dio sopra coloro che fanno il male»: è il volto della giustizia. Dio mostra al Figlio suo questo volto, gli mostra quell’occhio infocato; lo guarda, non già con quello sguardo dolce e pacifico che riconduce la serenità, ma con quello sguardo terribile, «che davanti a sé accende il fuoco»: Ignis in conspectu ejus exardescet, fuoco che porta lo spavento nella coscienza: lo guarda infine come un peccatore e si avanza contro di Lui con tutto l’apparato della sua giustizia… Dio mio! perché veggo contro di me quel volto con cui fate tremare i reprobi? Volto del Padre mio, dove siete voi? Volto dolce e paterno, non veggo più nessuno dei vostri tratti, non veggo più che un Dio corrucciato! Deus meus, Deus meus! O bontà! O misericordia! ah! come vi siete ritirato lungi da me! Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?
     «In terzo luogo, la maledizione di Dio va penetrando sino al fondo della sua anima; Dio solo può penetrare sino al centro dell’anima. Il passaggio ne resta chiuso agli assalti più violenti delle creature; Dio, creando l’anima, l’ha riservata unicamente a se medesimo, ma, quando lo vuole, la commuove sino alle fondamenta: Commovebit illos a fundamentis. Questo, nella Scrittura, si chiama stritolare i peccatori: Dominus voluit conterere eum in infirmitate: «Il Signore ha voluto stritolarlo nella sua infermità». Non aspettatevi ch’io vi rappresenti quest’ultimo supplizio; ma riflettete almeno che il Figlio di Dio doveva sentire in se stesso una oppressione oltremodo violenta poiché esclamava: Perché, Padre mio, mi abbandonate? Bisogna perciò che la divinità di GESÙ CRISTO si fosse come ritirata in se medesima; oppure che, lasciando sentire la sua presenza soltanto in una certa parte dell’anima, ciò che non è impossibile a Dio che sa dividere lo spirito dall’anima, Divisionem animae et spiritus, essa avesse abbandonato tutto il resto ai colpi della divina vendetta; ovvero che, con un miracolo o con qualche altro segreto sconosciuto agli uomini, poiché tutto in GESÙ CRISTO è straordinario, essa avesse trovato il mezzo di conciliare con l’unione strettissima tra Dio e l’uomo, una tale estrema desolazione, nella quale l’Umanità di GESÙ venne immersa, sotto i colpi raddoppiati e moltiplicati della vendetta divina. In qual maniera si è operato tutto questo, non domandatelo a umane intelligenze; ma, soltanto la violenza di un’angoscia inconcepibile ha potuto strappare dal fondo del divin Cuore quello strano lamento al Padre: Quare me dereliquisti? Qui sta il mistero.
    «Mentre avveniva quell’abbandono, Dio stava operando in GESÙ CRISTO la riconciliazione del mondo, smettendo di imputar agli uomini i loro peccati: mentre colpiva GESÙ, apriva le braccia agli uomini: respingeva il Figlio suo e apriva a noi le braccia: lo guardava con volto adirato, e gettava sopra di noi uno sguardo di misericordia: Pater per noi; Deus per Lui. La sua collera si dissipava mentre si scaricava in GESÙ» (I Sermon pour le Vendredi saint).


    Ecco a quali estreme umiliazioni il nostro dolce Redentore venne ridotto dalla sua condizione di Vittima espiatoria. Non dimentichiamo però che GESÙ, mentre è la nostra Vittima, è pure anche il nostro modello. Se «Colui che non conosceva il peccato, è stato trattato come se fosse il peccato medesimo»; se nessun abisso gli è parso assai profondo per immergersi, come per mettersi al suo posto, essendosi costituito nostra cauzione, nostro garante, la nostra Ostia, – quali debbono essere in noi che abbiamo meritato l’inferno, l’inferno con i suoi supplizi, i suoi obbrobri e la sua eternità: quali debbono essere la nostra inclinazione pressante e il nostro bisogno imperioso di abbassarci, di confonderci, di perderci negli abissi dell’onta e della abiezione?.. Noi non potremo mai scendere abbastanza basso; ma conserviamoci fedelmente uniti alla nostra dolcissima Vittima, onde mantenerci sempre nella verità, nella semplicità e nella pace, sia pure in fondo a tali spaventosi abissi.



NOTE
(142) Plus amat nos Deus, quam Filium Pater: – SALVIANUS.