Il sacerdote e la speranza

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Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins

Verso le vette della Santità Sacerdotale

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RITIRO DEL MESE DI MARZO

IL SACERDOTE E LA SPERANZA

 

 

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La fede ci introduce nella speranza: Fides sperandarum substantia renivi (Hebr. 11, 1). L'Apostolo, che scrive queste parole, c'invita a vivere di ferma speranza: Fortissimum solatium habeamus, qui confugimus ad tenendovi propositam spera: quarti sicut anchoram habemus animae tutam ac firmavi, et incedentem usque ad interiora velaminis: ubi praecursar pro nobis introivit Jesus, secundum ordinem Melchisedech Pontifex factus in aeternum (Hebr., 6, 18 seq.).

Se osserviamo l'abituale indirizzo dei nostri pensieri, se studiamo attentamente 1 moti Istintivi del nostro cuore, constateremo che i pensieri si elevano a stento, che il cuore più che dilatarsi si restringe. Causa di ciò si è che la speranza non forma abbastanza l'oggetto delle nostre meditazioni, non ispira che debolmente i nostri sentimenti. Recitiamo, è vero, la formula, ma non ne facciamo atti frequenti: questi illuminerebbero la nostra vita, la renderebbero soave, riuscirebbero a sublimarla rendendola, secondo la bella espressione di San Lorenzo Giustiniani, quasi «la perpetua vigilia dell'eterna solennità» 8).Meditiamo dunque sul bisogno che abbiamo di vivere di speranza e che possiamo e dobbiamo praticare questa virtù.

1. – ABBIAMO BISOGNO DI VIVERE DI SPERANZA

Non si può leggere senza turbarsi la celebre sentenza di S. Giovanni Crisostomo: Non alio modo loquor, quarti ut affectus sum. Non multos puto sacerdotes salvos fieri, sed longe plures perire, non alia de causa, quam quod res magnum postulet animimi (9). E nel grande Vescovo essa non è frutto di impressione passeggera, ma piuttosto un vero assillo, perché scrive ancora: Omnium quos regis. mulierum et virorum et piterorum, a te reddenda est ratto: tanto igni caput tuum subiicis. Miror an fieri possit ut aliquis ex rectoribus sit salvus (10).

L'affermazione del libro della Sapienza (6, 6): ludicium durissimum his Qui praestint e l'affermazione stessa di Gesù: Cui multum datum est, multum quaeretur ab eo (Luc. 12, 48) non ci permettono di tacciare di esagerato quel testo cosi tremendo del santo Dottore.

E poi, se riflettiamo all'eccellenza della nostra vocazione, alla santità dei nostri ministeri, alla nostra schiacciante responsabilità, non riusciremo a tranquillizzarci, pensando specialmente alla nostra fragilità, causa di tante miserie e di tante cadute.

Quando il bambino spensierato e allegro attende al gioco, non pensa alla mamma. Ma tosto che si presenta il pericolo oh, con quale ansia a lei stende le braccia! La nostra vita è esposta inevitabilmente a molti pericoli. Per viverla nella sua pienezza, occorre una certa sicurezza, la quale può esserci infusa solo dalla speranza. Per agire con amore è necessario non credersi inesorabilmente votato all'odio. Noi abbiamo un bisogno immenso di confidenza per la nostra tranquillità e per la santificazione nostra e delle anime. Siamo sacerdoti per il solo scopo di popolare di eletti il cielo. Ora il nostro ministero si compie essenzialmente colla preghiera e col sacrifizio: Ex hominibus assumptus pro hominibus constituitur in iis quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis (Hebr., 5, 1). Il nostro apostolato continua l'opera della grande mediazione del Cristo. Ma Gesù quando pregava diceva al Padre: Ego autem sciebam quia semper me audis (Ioan. 11, 42); quando si disponeva a bere il calice della Passione, ne aspettava la ricompensa con splendida certezza: Clarifica Fìlium tuum ut Filius tuus clarificet Te (Ioan., 17, I)

 

E noi saremo ostia di impetrazione e di immolazione se avremo la fiducia di rivolgerci non tanto all'inflessibile giustizia, quanto alla misericordiosa bontà di Dio. S. Paolo ci esorta in questo senso: Adeamus ergo ***** fiducia ad thronum gratiae (Hebr., 4., 16). Come lui, sappiamo in Chi confidiamo: Scio cui credidi. Il nostro primo passo verso il sacerdozio compiuto con l'ingresso nel chiericato fu contraddistinto da ben forte impulso all'abbandono di noi stessi in Dio, fondato sulla fede nell'immenso dono di Dio a noi: Dominus pars haereditatis meae et calicis mei (Ps. 15, 5). Comprendiamo allora che nulla dovevamo conservare della nostra personalità, nulla rifiutare a Dio. Che cos'è che ci fa apostoli, se non il dono totale di noi stessi, che ci rende strumenti docili nelle mani del Signore? Nello stesso tempo però, facemmo affidamento su di una restituzione splendida: Tu es qui restitues haereditatem meam mihi (Ps. 15, 5)! E prevedendo questa restituzione mediante il nostro sacerdozio, esclamavamo: Funes ceciderunt mihi in praeclaris (Ps. 16, 6).

Divenuti sacerdoti, ci dobbiamo sacrificare per le anime, il che forma l'essenziale del nostro lavoro divino, ma potremo riuscirvi nella misura della nostra speranza; virtù questa che ha bisogno d'estendersi all'infinito, perché il sacrificio richiesto dev'essere assoluto: Ego autem libentissime impendam, et superimpendar ipse pro animabus (2 Cor., 12, 15).

E poi non ci basta versare il prezzo del riscatto delle anime in unione a Cristo; è necessario le solleviamo verso le vette. Per adoperarsi a ottenere il cielo, è assolutamente necessario desiderarlo. Ma, purtroppo, chi lo desidera?

Il fascino delle vanità seduce più che mai gli spiriti; più che mai il vitello d'oro è la divinità cui il mondo s'inchina; più che mai le vili passioni tengono schiave le più nobili facoltà degli esseri forniti d'intelligenza.

L'apostolo che lancerà ai fratelli un animoso ed efficace «Sursum corda», non sarà certo di coloro che spem non habent! Non attenuerà le esigenze della morale cristiana, nè l'austerità della predicazione necessaria della croce; ma perchè egli è corde tamen flxiis in coelo, con autorità convinta e quindi convincente, dirà a quanti annunzia il Vangelo: Spe gaudentes, in tribulatione patientes (Rom., 12, 12).

S. Paolo dava questo tono incoraggiante alla sua predicazione: Deus autem spei repleat vos omni gaudio et pace in credendo, ut abundetis in spe, et virtute Spiritus Sancii (Rom. 15. 13). E dopo simile voto accesissimo, con quanta commovente persuasione scrive: Certus sum autem, fratres mei, et ego ipse de vobis, quoniam et ipsi pieni estis dilectione, repleti omni scientia (Rom. 15, 14)…

Abbiamo dunque bisogno di speranza e per noi e per gli altri. Il prete che non vive la preghiera liturgica: Ibi fixa sint corda, ubi vera sunt gaudio, sarà inevitabilmente un timido, uno scoraggiato. Se ha paura di Dio, sarà in pericolo di fuggirlo; privo d'ideale, si lascerà sopraffare da preoccupazioni meschine: privo di slancio, si lascerà dominare da tutti e da tutto. Il minor male che ne potrà risultare sarà ch'egli rimanga inerte su di una via in cui dovrebbe correre e non solo camminare; meglio, dovrebbe volare come dice l'autore della Imitazione ed ecco, invece, che si seppellisce. Che sventura!

 

Il buon prete è come tutti gli altri esposto molti pericoli, ma sa evitarli; soffre tribolazioni infinite, ma ne trionfa; s'imbatte in ostacoli, ma li supera, li domina. La sua parola d'ordine è: Spe enim salvi facti sumus (Rom., 8, 24).